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Lampade che creano micro-mondi surreali nei collage di Francesca Gastone

02/05/2024
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Francesca Gastone ha un talento nel mescolare elementi della realtà in straordinarie opere di digital collage che ispirano stupore e gioia. Nella sua ultima serie, parte del progetto “What’s in a lamp?”, le lampade Foscarini diventano l’elemento propulsore di suggestivi micro-mondi, in cui si creano ed animano scene di vita quotidiana.

Francesca Gastone, laureata in Architettura presso il Politecnico di Milano e con una specializzazione in illustrazione editoriale, trae ispirazione dalle sue esperienze in metropoli come São Paulo e Hong Kong. Le sue illustrazioni catturano l’essenza delle interazioni umane, delle emozioni, dell’unicità di ciascun individuo nella moltitudine, mentre la sua formazione in architettura si riconosce nell’attenta gestione spaziale e nella composizione

Nella sua serie per “What’s in a lamp?” Francesca Gastone illustra, con la tecnica del collage digitale, racconti di vita che prendono forma intorno a una selezione di lampade della collezione Foscarini. In queste suggestive illustrazioni, ogni lampada illumina episodi di quotidianità in micro-mondi che risultano familiari e surreali al tempo stesso, sviluppando narrazioni in cui è naturale immergerci e delineando protagonisti nei quali immedesimarci. Storie visive che, come ponti verso le lampade che le animano, tracciano percorsi che ci avvicinano alla loro luce.

“Il tempo scorre in un susseguirsi di mattine, pomeriggi, sere e nottate; le lampade restano apparentemente immutabili, eppure hanno questo potere bellissimo di accendersi e diventare anch’esse vive, trasformarsi e trasformare lo spazio e la vita intorno a loro — l’unica differenza è che questa magia, nelle mie illustrazioni, è posta su scala differente.”

Francesca Gastone

In questa intervista esclusiva, Francesca Gastone ci porta nel suo mondo creativo, raccontandoci il percorso che l’ha portata dall’infanzia, quando il disegno era la sua passione, fino alla maturità come illustratrice e architetta. Condividendo le influenze che hanno plasmato la sua visione artistica, approfondisce l’ispirazione dietro a questa serie realizzata con Foscarini.

Ciao, Francesca! Ci puoi raccontare qualcosa di te e del tuo percorso artistico? Quando hai iniziato a dedicarti al disegno e quando hai capito che volevi diventare un’illustratrice?

L’approccio al disegno è sempre stato per me naturale e l’amore per l’arte in tutte le sue forme mi ha portata a un diploma al liceo artistico e, successivamente, a una laurea in architettura. Ho iniziato a lavorare come architetto in Italia e, poi, a San Paolo (in Brasile) e ad Hong Kong. Il primo approccio all’illustrazione è nato casualmente dalla necessità di risolvere questioni di interior design. Mi trovavo a San Paolo, che culturalmente è una città ricchissima, e dove ho trovato terreno fertile per iniziare ad approcciare questo mondo: ho cominciato a comprare sempre più riviste e libri illustrati, a fare workshop e corsi, ma avevo pochissima consapevolezza di come l’illustrazione potesse declinarsi in una vera professione. La nascita di mia figlia Olivia ha coinciso con il mio trasferimento ad Hong Kong. Questo periodo, fatto di ritmi lenti ma serrati, ma anche di scoperta, curiosità, e una vera e propria immersione nei picture books, ha rappresentato una scossa. Un giorno ho preso un aereo per Shanghai ed ho trascorso tre giorni a mostrare i miei lavori (in quel momento totalmente acerbi) alla Shanghai Children’s Book Fair. Non ho raccolto molto, ma ho capito che era una strada vera, percorribile e l’illustrazione è diventata una necessità. Sentivo però di non avere delle basi solide, perciò nel 2021 ho deciso di iscrivermi a un master a Milano. Da quel momento la prospettiva su questa professione è cambiata e ho capito che l’illustrazione riassumeva in giusta dose tutto ciò che amavo.

 

 

Come convivono e si influenzano reciprocamente le due anime di Francesca Gastone, l’architetto e l’illustratrice?

Convivono e si influenzano costantemente, tanto da non sapere spesso riconoscere dove finisce una e comincia l’altra. Ricordo che a 7 anni disegnavo solo tetti e tegole e la maestra scherzò con mia madre dicendole che avrei fatto l’architetto. Non so se sia stata la fiducia incondizionata verso il suo giudizio o un’attitudine reale a spingermi, ma presi quella frase come una rivelazione, come se avessi ricevuto un dono e la strada davanti fosse diventata magicamente chiara. La figura dell’architetto mi sembrava magica e potentissima; nessuno nella mia famiglia aveva mai lavorato in questo ambito. Questo aneddoto oggi mi fa sorridere e credo che l’architettura resti una delle mie più grandi passioni, le devo tantissimo, ma nel corso degli anni e dopo aver vissuto in tre continenti con approcci diversi al lavoro di architetto, ho capito che quel ruolo mi stava spesso stretto. L’illustrazione ha in qualche modo risolto tante cose che in me erano sospese, ma la verità è che mi sento un architetto anche quando faccio l’illustratrice. La scuola politecnica mi ha dato un metodo che quasi inconsciamente ripongo in ogni aspetto professionale della mia vita. È un bagaglio utilissimo ma molto ingombrante e che spesso mi fa chiudere in schemi da cui mi è difficile liberarmi.

 

 

Come descriveresti il tuo stile artistico, e come si è evoluto nel corso del tempo?

In realtà, ho iniziato facendo quello che ho sempre fatto in architettura, solo che invece di piante, prospetti e sezioni, ho iniziato a costruire architetture immaginarie e metaforiche per poi renderle abitate. L’architettura si presta alla relazione con concetti molto più ampi del solo abitare; si fa strumento per affrontare qualunque tema, perché è dentro di tutti noi. Gli esseri umani hanno questa meravigliosa capacità di abitare spazi, ma anche sensazioni, emozioni, idee. Siamo in grado di scegliere quanto e come occupare e quanto invece lasciare… un vuoto, un silenzio, fisica e astrazione. Questo è ciò che mi muove. Spesso ricorro, come nel caso di Foscarini, al contrasto tra scale diverse, trasformando oggetti in piccole architetture abitate. Il contrasto che ne scaturisce porta alla sorpresa, e quando riesco a meravigliare, penso di aver fatto un buon lavoro. È una buona misura di valutazione. Altro aspetto fondamentale è l’uso del collage: se per alcuni elementi ammetto l’astrazione e mi discosto dalla realtà perché il collegamento al tema sia immediato, i personaggi ed alcuni oggetti che scelgo sono sempre reali ed inseriti a collage. Questo legame con il reale è per me necessario, e la scelta della giusta espressione, posizione, sguardo diventa maniacale.

Qual è la tua più grande fonte di ispirazione quotidiana e come coltivi la tua creatività?

Senza dubbio, le persone e le loro diversità. Le mie illustrazioni raramente urlano un messaggio; si fanno manifesto. Sono invece l’immagine di un futuro per me ideale. Sono fatte per lo più da persone; la componente umana è necessaria alla lettura stessa dell’immagine. Aver vissuto in due megalopoli come San Paolo ed Hong Kong ha fatto sì che allenassi il mio sguardo verso le vite degli altri, riconoscere le unicità nella moltitudine. Le persone che disegno sono portatrici di un’identità ed un sentire comune, pur mantenendo ognuna la propria unicità. Forse è per questo che amo le grandi città: questo senso identitario condiviso è più comune e afferrabile, diventa quasi un bisogno. La mia creatività la coltivo principalmente così: osservando e fotografando continuamente soggetti, luoghi, atmosfere. Ho un’infinità di cartelle sul PC con foto che spesso guardo ed uso al bisogno. Ma nulla di questo sarebbe possibile senza uno studio costante e una curiosità incessante verso il passato (ciò che è già stato fatto, i maestri, il bagaglio che ci portiamo) ma anche verso ciò che succede intorno a me nel presente. Viviamo in un momento dove gli stimoli sono eccessivi e sono ovunque; bisogna sviluppare un proprio senso critico verso le cose. Questo credo sia importantissimo.

 

Come è nata la collaborazione con Foscarini?

Foscarini è un brand che nella mia vita da architetto è sempre stato presente, dai prodotti ad Inventario. Realizzare una collaborazione con Foscarini è quello che per me si potrebbe definire un “dream project”, la sintesi perfetta di ciò che più amo.

 

Nel progetto “What’s in a lamp?” per Foscarini, hai creato affascinanti ‘micro-mondi’ intorno alle lampade della collezione. Ci racconti qualcosa di più dell’ispirazione dietro a questa serie?

Il punto da cui sono partita sono i prodotti Foscarini. Volevo fossero al centro del racconto e ho iniziato a guardarli nella loro proporzione di pieni e vuoti, con una vita propria scandita dal tempo e dalla luce, naturale o artificiale, con le loro ombre. È stato quasi naturale farli vivere come delle piccole architetture attorno a cui si muove la vita. Il tempo scorre in un susseguirsi di mattine, pomeriggi, sere e notti; le lampade restano apparentemente immutabili, ma hanno questo potere bellissimo di accendersi e diventare anch’esse vive, trasformarsi e trasformare lo spazio e la vita intorno a loro. È una piccola magia insomma, e una riflessione su quanto questa magia accada quotidianamente, qui è solo posta su scala differente.

 

Ci sono oggetti che, un po’ come le lampade Foscarini nella tua serie, rappresentano per te dei punti fissi, delle presenze costanti intorno alle quali si sviluppano le tue esperienze quotidiane?

Ho abitato tantissime case ed ho un rapporto difficile con il concetto stesso di casa (forse da qui la mia ossessione sull’abitare) e nel corso degli anni sono diventata sempre più selettiva nella scelta degli oggetti che mi circondano, ma la costante associata al “punto fisso” in ognuna di queste case credo sia sempre stato il tavolo da pranzo. Su quel tavolo gira sempre la vita dell’intera casa, dal consumo dei pasti, alla preparazione stessa, allo studio, al lavoro, alla sperimentazione, al gioco, alla conversazione, all’ospitalità. Infatti, attualmente, occupa quasi l’intera casa. Se invece devo pensare a oggetti specifici che in queste undici case mi hanno seguita, sono tutti oggetti di poco ingombro e facili da trasportare: una statuetta dell’Espírito Santo in legno, regalo di un amico; un libro di Zumthor; una vecchia fotografia di mio nonno che immortalava la fioritura di una pianta grassa; un’incisione di un gruppo di araucaria brasiliane. Una piccola Wunderkammer trasportabile.

 

Puoi approfondire l’aspetto narrativo del tuo processo creativo?

Lo storytelling che si cela dietro ad ogni lavoro è importantissimo e svolge un ruolo fondamentale; arricchisce il lavoro stesso e lo determina. Scegliere cosa dire, in che misura, come dirlo, quale tono di voce usare si riversa in tutte le scelte formali che ne seguono, dalla composizione ai pesi, alla palette. I lavori che preferisco sono quelli che nel raccontare non si pongono come obiettivo quello di dare risposte, ma bensì aprire domande. Credo che il lavoro svolto per Foscarini ben rappresenti un esempio di quest’ultimo: le illustrazioni raccontano la vita che accade intorno alle lampade, ma non ci danno istruzioni su come sia meglio viverle. In quelle vite ci rispecchiamo, ci riconosciamo, ci domandiamo che ruolo avremmo potuto assumere, quale orario della giornata sentiamo più nostro, quale luce ci fa stare più a nostro agio. Sono un ponte di contatto con le lampade rappresentate, delineano percorsi che ci avvicinano a loro e ci fanno venire voglia di prendere parte a questa giostra di vita.

 

Qual è la tua illustrazione preferita all’interno di questo progetto e quale significato ha per te?

Ognuna di queste illustrazioni è stata per me un viaggio, ma credo di preferire fra tutte la notte di Cri Cri. È l’unica lampada che ho disegnato accesa nelle ore notturne, proprio perché il suo sembrare una piccola lanterna mi ha subito evocato la meraviglia di come una notte possa essere abitata, in questo momento intimo e magico dove un bimbo è assorto nella lettura di un libro.

 

Qual è il tuo soggetto preferito da disegnare?

I bambini, per svariati motivi. Primo fra tutti il fatto che rendono immediata la trasmissione di un concetto e di una particolare emozione, perché le attività che li vedono coinvolti spesso riassumono concetti molto più articolati e complessi in modo semplice ed immediato. Il gioco come metafora della vita. Poi sono anche bellissimi da disegnare, e mi sono spesso sentita dire che sorrido mentre li disegno. Il migliore antidepressivo insomma.

 

Cos’è per te la creatività?

Ti rispondo riprendendo il verbo che tu hai scelto nelle domande precedenti per parlare di creatività: coltivare. Credo che l’uso di questo verbo ne determini bene la natura: viva. Necessita di nutrimento quotidiano, attenzione e cura, ma anche della capacità di farla crescere e risplendere. Questa capacità è legata alla preparazione, oltre che alla semplice predisposizione.

Lasciati trasportare nel mondo dei collage illustrati di Francesca Gastone e scopri l’intera serie sul canale Instagram @foscarinilamps

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