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Nella nuova serie per What’s in a Lamp?, Giona Maiarelli celebra l’iconicità delle lampade Foscarini intrecciando la cultura italiana e quella americana in collage che danno nuovi significati agli oggetti, combinando immagini tratte da vecchie riviste, libri e fotografie d’epoca, reinterpretate attraverso memoria e fantasia.

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Artista, graphic designer e curatore, Giona Maiarelli, nato in Italia e residente negli Stati Uniti da oltre venticinque anni, incarna un ponte creativo tra due culture. La sua produzione artistica si concentra sul collage, una forma espressiva profondamente legata alla casualità e alla serendipità, in cui combina intuizione, tattilità con una sensibilità estetica che è un tributo alla capacità dell’arte di creare connessioni inaspettate.

Nella sua serie per What’s in a Lamp? Giona Maiarelli ha creato una serie di collage che intrecciano la cultura italiana ad un’affascinante esplorazione dell’immaginario collettivo americano. Al centro di queste opere, alcune lampade iconiche di Foscarini – tra cui Aplomb, Binic, Caboche, Chouchin, Nuée e Spokes – si fondono con immagini tratte da vecchie riviste, libri e fotografie d’epoca per creare composizioni originali, in un dialogo visivo che esalta le qualità estetiche di ogni lampada, collocandola nel contesto del mito americano con accenti talvolta ironici, talvolta romantici.

“Il mio obiettivo era esplorare la tensione tra la raffinata estetica italiana delle lampade Foscarini e la pragmatica ruvidezza del paesaggio americano,” racconta Maiarelli. Nella sua interpretazione artistica Caboche diventa un gioiello circolare accostato ai serbatoi d’acqua americani, mentre Spokes, con i suoi raggi, rimanda ai caotici fili dell’elettricità su cui si poggiano gli uccelli. Chouchin, invece, si trasforma in un oggetto volante, un riferimento alla fascinazione americana per i fenomeni extraterrestri. Ogni lampada diventa quindi protagonista di un racconto visivo che mescola design e narrazione, estetica e immaginazione.

Scopri di più sulla collaborazione con Giona Maiarelli e la serie completa sul canale Instagram @foscarinilamps, e ed esplora tutte le opere del progetto What’s in a Lamp?, dove artisti internazionali sono chiamati a interpretare la luce e le lampade Foscarini.

Ciao Giona, puoi raccontarci qualcosa del tuo percorso artistico? Come sei arrivato ad abbracciare l’arte del collage e cosa rappresenta per te questa forma espressiva?

Agli inizi della mia carriera di graphic designer amavo riciclare in un collage gli scarti di carte e cartoncini usati nelle presentazioni. Intravedevo delle possibilità espressive nei rifiuti del mio lavoro. Poi una lunga pausa dedicata alla professione, sempre però attratto dal Dadaismo e dal collage, in particolare quelli dell’artista e poeta Jiří Kolář. Infine nel 2016 la decisione di ridedicarmi alla mia passione.

“Ritrovare” il collage a distanza di anni ha significato riscoprire il piacere di creare con le mani che, facendo da tramite tra la mente ed il foglio, diventano parti attive nella creazione. Ritagli di carta si muovono sul cartoncino, l’intuizione diventa azione, fino a quando la composizione si rivela. Ma il ciclo non è completo fino a quando il collage non viene visto da uno spettatore. È solo quando vedo il collage attraverso gli occhi di una altra persona che il ciclo si conclude.

 

Il tuo approccio al collage è immediatamente riconoscibile e unico. Come descriveresti il tuo stile? Quali sono gli elementi distintivi che lo caratterizzano?

Il caso ha un ruolo fondamentale nelle mie composizioni: anche quando intendo comunicare un’idea specifica, il collage si rifiuta di essere accondiscendente e mi rivela possibilità espressive e compositive che non avevo considerato. Poi c’è il piacere della sorpresa: trovare un libro da cui asportare immagini in una libreria dell’usato, scoprire potenziale in immagini che avevo inizialmente scartato, la sorpresa, infine, di una composizione che si rivela casualmente sulla pagina. Ogni serie di collage ha un tema di partenza, ma l’istinto gioca una parte indispensabile.

 

Da dove nasce la tua ispirazione?

L’ispirazione nasce parallelamente al lavoro. Quando comincio una serie di collage non ho un’idea in mente, solo il materiale con cui ho deciso di lavorare, scelto sulla base di una intuizione. Dopo qualche ora, o a volte qualche giorno, le idee emergono da sole attraverso il lavoro stesso.

 

Cosa ti attrae maggiormente della realtà che ti circonda e come traduci queste suggestioni nei tuoi lavori?

La maggior parte delle serie di collage che ho prodotto sono indagini sul mio personale immaginario americano: i paesaggi dell’ovest degli Stati Uniti, l’architettura modernista dei grattacieli del dopoguerra a New York e le case Case Study californiane, la Hollywood del passato, le pagine del New York Times. Forse inconsciamente sto metabolizzando la mia decisione di trasferirmi negli Stati Uniti, riappropriandomi di immagini che erano presenti nel mio inconscio.

 

Nel progetto “What’s in a lamp?” per Foscarini, hai creato composizioni che associano le lampade a immagini evocative, talvolta ironiche, talvolta poetiche. Puoi svelarci l’ispirazione e il processo creativo dietro a questo lavoro?

Per “What’s in a lamp” ho voluto collocare le lampade di Foscarini in un contesto americano. Mi sembrava la scelta più ovvia dovuta al fatto che risiedo negli Stati Uniti e il patrimonio visivo americano fa parte del mio vocabolario artistico.

 

In questa serie emerge infatti molto chiaramente il dialogo tra le due culture, quella italiana e quella americana. Come queste due realtà si incontrano e si fondono nelle tue composizioni?

Il mio obbiettivo era quello di esplorare la tensione tra la raffinata estetica italiana delle lampade di Foscarini e la pragmatica ruvidezza del paesaggio americano, giocando con le dimensioni ed il contrasto tra le immagini a colori dei prodotti e le immagini in bianco e nero dei paesaggi. Alla fine questi due mondi, così apparentemente distanti, si sono sciolti in un abbraccio, a volte ironico e a volte poetico.

Quali elementi specifici dell’immaginario collettivo americano hai portato nei collage creati per “What’s in a lamp?”?

La forma e il materiale delle varie lampade hanno suggerito delle strade. Caboche si è presentata come un prezioso monile circolare da sposare con un austero elemento del paesaggio americano quali i serbatoi d’acqua. Aplomb si è inserita sul viso dell’uomo americano “ideale”, creato combinando i ritratti di 5 presidenti americani, sostituendo la sua apertura luminosa a un telegenico sorriso. Spokes, con i suoi raggi filiformi, rimanda ai caotici fili dell’elettricità che si aggrovigliano nei cieli americani, da cui gli uccelli ci osservano, e non manca di ricordarci la sua vocazione di elegante voliera. Binic, mi ha ricordato una luminosa luna piena e mi ha spinto verso le immagini legate all’esplorazione americana del nostro satellite. Sapevo fin dall’inizio che almeno una delle lampade sarebbe diventata un oggetto volante, fenomeno tipicamente americano e fonte di ingenue teorie cospiratorie. Questa sorte è toccata a Chouchin, lucente e tecnicamente esemplare, come immagino possa essere un oggetto volante proveniente da una civiltà più evoluta della nostra, che coglie di sorpresa dei passanti. Nuee è una nuvola leggiadra che intercetta la nostra spericolata tuffatrice e la accompagna in un viaggio magico.

 

Quali artisti o influenze hanno maggiormente contribuito alla formazione della tua visione artistica? Chi consideri i tuoi maestri?

L’artista e poeta ceco Jiří Kolář, che ho citato prima, ha avuto una grande influenza sul mio lavoro. E poi l’attitudine scanzonata dei movimenti Dada e Futurista.

 

Hai una ritualità o segui particolari abitudini quando lavori ai tuoi collage?

Musica, sempre.

 

Cos’è per te la creatività?

Il mio mentore, Milton Glaser, diceva che la creatività non esiste; esiste solo l’immaginazione. La creatività non è altro che la facoltà di immaginare, e poi creare, mondi che ancora non esistono.

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Bennet Pimpinella porta la sua arte cinematografica nel progetto What’s in a Lamp? e utilizzando la tecnica del graffio sulla pellicola rende le lampade Foscarini simboli di emozioni e ricordi in scene intime dall’atmosfera surreale e underground.

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Bennet Pimpinella non è estraneo alla sperimentazione. Nato nel 1977 e formatosi in cinema all’Accademia dell’Aquila, Pimpinella ha trascorso la sua carriera sfumando i confini tra analogico e digitale, sempre alla ricerca di ridefinire la relazione tra luce e immagine. Il suo stile è inconfondibile: un linguaggio visivo che mescola ricerca, artigianalità e un profondo legame con il mezzo cinematografico. La tecnica del graffio sulla pellicola è la sua firma, un segno in cui si traduce tutto il processo creativo con la sua intensità, le sue imperfezioni, e quel tratto vigoroso e istintivo che nasce dal contatto diretto con la celluloide. I suoi lavori si distinguono per un’estetica grezza, carica di energia e sensibilità, che trascina lo spettatore in un universo ricco di emozioni intense, riflesso del sentire dell’autore nell’istante della creazione artistica.

Nella sua collaborazione con Foscarini per il progetto What’s in a Lamp?, Pimpinella porta la sua capacità di manipolare la pellicola a un nuovo livello, rendendo la luce la protagonista assoluta delle sue opere.

“Ciascuno dei sei film prodotti per Foscarini è unico, ma sono tutti legati da un’atmosfera intima e affettiva. Le lampade Foscarini si integrano in questo racconto, divenendo simboli di emozioni e ricordi, parte integrante di una narrazione silenziosa ma profonda. Ho voluto fondere la materialità della pellicola graffiata e colorata con il surreale, creando un dialogo tra luce e ombra che racconta storie silenziose ma potenti.”

Bennet Pimpinella
/ Artista e regista

La colonna sonora – realizzata con il compositore Carmine Calia – non si limita a seguire le immagini, ma le modella e le arricchisce di significati. La luce e le forme nelle opere di Pimpinella assumono così una nuova dimensione emotiva, vengono amplificate dalla musica, creando una connessione intensa con lo spettatore.

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Raccontaci qualcosa di te: hai sempre saputo che volevi fare l’artista? Come è iniziato il tuo viaggio nel mondo del cinema e della sperimentazione artistica?

Non ho mai immaginato di poter vivere facendo l’artista, nonostante fossi cresciuto in un ambiente pervaso d’arte. Mio padre, pittore e scultore, e mia madre, ritrattista, mi hanno sempre trasmesso la passione per il disegno e la pittura, ma per me era una dimensione intima, qualcosa che faceva parte della quotidianità senza però pensare che potesse diventare il mio percorso di vita.

Dopo un’esperienza scolastica come geometra, che sentivo repressiva rispetto alle mie inclinazioni, ho deciso di iscrivermi all’Accademia Internazionale delle Scienze e delle Arti dell’Immagine. È stato un cambiamento radicale: mi sono immerso in un mondo completamente nuovo, quello del cinema, scoprendo una forma espressiva che ha trasformato la mia visione dell’arte.

Non più statica, bensì in movimento.

Ho avuto la fortuna di incontrare grandi maestri, tra cui Vittorio Storaro, una figura fondamentale per il mio percorso. Dopo l’Accademia, ho avuto l’onore di far parte del suo team per dieci anni, un’esperienza che mi ha formato profondamente.

Il mio ruolo era quello di assistente operatore e il mio compito era caricare e scaricare la pellicola nelle macchine da presa in 35mm.

Proprio lì imparai sia a maneggiare sia a prendermi cura della pellicola. È stato in quel periodo che trovai il mio spazio, apprendendo i fondamenti della tecnica e dell’estetica cinematografica.

Quegli anni sono stati una scuola di disciplina, tecnica e soprattutto di amore per la ricerca della bellezza nell’immagine. Ancora oggi, porto con me quegli insegnamenti e sono grato al Maestro Storaro e a tutta la squadra per avermi trasmesso una passione che continua a guidarmi ogni giorno.

 

Cosa ti motiva a creare e da dove nasce la tua ispirazione: dalla curiosità, dalla ricerca di significato o dall’espressione visiva pura?

Creare è il mio modo di esprimermi, come per altri potrebbe essere scrivere, suonare o cantare. Per me è qualcosa di naturale, quasi di istintivo, è una necessità, una cura per ogni mio disagio interiore. La mia tecnica e il mio lavoro diventano il mezzo per elaborare ciò che vivo e sento.
Il mio approccio è fondamentalmente sperimentale: parto da un gesto, da un segno, cercando ogni volta qualcosa di nuovo, ma al tempo stesso riconoscibile. La mia ispirazione non ha una fonte unica: attingo da tutto ciò che mi circonda e che attraversa i miei sensi. Può essere il blu del mare, una giornata grigia, una notizia di cronaca, la perdita di una persona cara o una melodia che mi cattura. Ogni esperienza, ogni emozione, si trasforma in un segno, in una forma. Potrei continuare all’infinito, perché tutto ciò che mi colpisce ha il potenziale di diventare parte del mio processo creativo.

 

Il tuo cinema è sorprendente e unico. Come descriveresti il tuo stile e come hai sviluppato questa estetica distintiva?

Durante il periodo all’Accademia ho esplorato tutte le forme di narrazione cinematografica, fino a quando ho realizzato il mio primo lavoro di animazione in stop motion. Quel primo progetto ha acceso in me una scintilla, spingendomi a immergermi completamente nel mondo dell’animazione. Ho acquistato libri, studiato tecniche e sperimentato, cercando di replicare metodi innovativi: dallo schermo di spilli di Alexandre Alexeïeff, al vetro retroilluminato, fino al motion painting di Oskar Fischinger e allo stop motion di Jan Švankmajer. Ogni nuova scoperta alimentava la mia curiosità.

La svolta decisiva è arrivata con la scoperta del cinema diretto, senza macchina da presa, di Stan Brakhage. Da quel momento, ho cominciato a sperimentare con il Super 8, graffiando, colorando e intervenendo direttamente sulla pellicola. Il momento più magico per me era la proiezione: usare un proiettore casalingo, sentire il rumore meccanico del motore che trascinava la pellicola, l’odore delle cinghie, la polvere che danzava nella luce della lampada… È stata un’esperienza che mi ha rapito l’anima. Ricordo ancora la prima volta che proiettai uno dei miei lavori: capii subito che quella tecnica sarebbe diventata il mio linguaggio.

Ora, dopo 25 anni, continuo a provare la stessa emozione, lo stesso senso di meraviglia ogni volta che la luce si accende e l’immagine prende vita. Il mio stile nasce da questo intreccio tra sperimentazione, artigianalità e un profondo legame con il mezzo fisico del cinema, che ancora oggi è alla base di tutto ciò che creo.

Hai trovato un equilibrio fra l’analogico e il digitale, ma il tuo lavoro inizia sempre con la pellicola. Quale processo segui per creare i tuoi videoclip? Siamo molto curiosi di capire quale sia la tua tecnica, gli strumenti che usi, e il tuo metodo di lavoro.

Ogni progetto inizia con una scelta fondamentale: il supporto. Decido se filmare del materiale nuovo e una volta sviluppato, ottenere il positivo su cui graffiare e intervenire, oppure se lavorare con la tecnica del found footage, utilizzando pellicole esistenti da manipolare. La scelta della pellicola è cruciale e dipende dal tipo di lavoro che sto realizzando. Esistono molte variabili: il formato, le perforazioni, il fatto che la pellicola sia già impressa o ancora non esposta. Anche il marchio e l’età dell’emulsione sono importanti, poiché influenzano il tipo di graffio che si otterrà – in termini di colore, profondità e linea. Ogni dettaglio conta nella creazione del risultato finale. Una volta selezionata la pellicola, inizia il vero e proprio lavoro, che richiede una dose immensa di pazienza e dedizione. È un processo che ti costringe a isolarti, come se il tempo si fermasse. Per un solo minuto di animazione possono volerci anche settimane. La meticolosità è essenziale.

Nel mio cinema diretto utilizzo una vasta gamma di tecniche, e ogni segno ha il suo strumento dedicato. Per graffiare la pellicola, ad esempio, uso punteruoli, aghi, kit da dentista, frese elettriche e Dremel. Ma non si tratta solo di graffiare: taglio, incollo e coloro utilizzando ogni tipo di materiale disponibile. I colori variano dai pigmenti per vetro, agli inchiostri a base d’acqua, fino ai colori indelebili. Il mio obiettivo è sempre quello di sfruttare al massimo ciò che il mercato offre, mantenendo la creatività al centro del processo.

Un elemento importante del mio lavoro è la collezione di trasferibili che ho accumulato negli ultimi vent’anni. Ne ho di ogni tipo e marca, e questo mi permette di esplorare infinite possibilità creative quando intervengo sulla pellicola. Ogni dettaglio del mio lavoro nasce da una combinazione di tecnica, sperimentazione e dalla volontà di spingere sempre un po’ oltre i confini del materiale.

 

Come è nata la collaborazione con Foscarini? Cosa ti ha motivato in questo lavoro?

Quando Foscarini mi ha proposto di collaborare, non ci ho pensato due volte. Ricordo ancora l’entusiasmo con cui ho detto subito sì. Essere scelto da un marchio che ammiro, e al tempo stesso avere la libertà creativa completa, è stato un forte stimolo per me. Ho visto l’opportunità di esplorare nuove idee, cercando di creare qualcosa che fosse in sintonia con il loro mondo, ma che allo stesso tempo portasse la mia impronta personale.

Ogni volta che mi viene concessa carta bianca, mi sento spinto a superare me stesso, a sperimentare, e a cercare soluzioni visive che siano sorprendenti e capaci di trasmettere emozioni. Volevo creare un’atmosfera che rispecchiasse l’essenza di Foscarini, ma che al tempo stesso portasse un tocco unico e inaspettato, capace di emozionare tanto me quanto il pubblico. Questo tipo di sfida, unire la mia visione con la loro, è stato il motore principale di questo progetto.

 

Nel progetto “What’s in a lamp?” di Foscarini, hai trasformato frammenti di un film graffiando la pellicola, aggiungendo colori e rendendo le lampade Foscarini parte della scena in modo surreale e underground. Potresti raccontarci l’ispirazione e il significato che ti hanno guidato nella creazione di questa serie?

Per il progetto “What’s in a lamp?”, ho cercato di creare una connessione profonda tra luce e vita. Quando ho iniziato a immaginare il progetto, ho fatto un gesto semplice, ma simbolico: ho spento tutte le luci di casa. Poi, una alla volta, ho iniziato ad accenderle, cercando quell’atmosfera perfetta che potesse aprire una via creativa. La luce è diventata la mia guida, e da lì è nata l’ispirazione per i sei minifilm che ho creato.

Ogni film è unico, distinto per colore e tecnica, ma sono tutti legati da un’atmosfera intima e affettiva. Ho voluto raccontare qualcosa che fosse universale, dove la luce non fosse solo un elemento fisico, ma la protagonista stessa: un riflesso della vita di ognuno di noi. Le lampade Foscarini sono diventate parte integrante di questa narrazione, trasformandosi in simboli di emozioni, ricordi e momenti di vita vissuta. Ho voluto fondere la materialità della pellicola graffiata e colorata con il surreale, creando un dialogo tra luce e ombra che raccontasse storie silenziose ma potenti.

 

C’è un film della serie che preferisci o che per qualche ragione ti è più caro?

Non ho un film preferito in senso assoluto, ma c’è una scena che mi è particolarmente cara: l’inquadratura iniziale di Spokes. In quel momento si concentra tutta l’intimità e il calore che solo un abbraccio può trasmettere. Il bagliore aranciato emesso dalla lampada Spokes invade dolcemente la stanza, avvolgendo i protagonisti in una luce che non è solo fisica, ma emotiva. È come se quella luce si prendesse cura di loro, proteggendoli dall’oscurità circostante. È una scena che parla di connessione, di protezione, di quel calore umano che va oltre le parole, ed è questo che la rende così speciale per me.

 

I graffi sulla pellicola esprimono tutta la passione e l’intensità con cui vivi la tua arte. Come si riflette la tua individualità nei tuoi lavori? Hai una ritualità quando crei le tue opere?

I graffi sulla pellicola sono, per me, come una firma , un’impronta che racchiude tutto il processo creativo con la sua intensità, le sue imperfezioni, e quel tratto vigoroso e istintivo che nasce dal contatto diretto con la celluloide. Ogni graffio, ogni segno è un riflesso di un preciso momento della mia vita e del mio stato d’animo in quell’istante. È come se il film stesso portasse con sé una parte di me, del mio vissuto. Non seguo un rituale rigido quando creo, ma mi affido molto all’istinto e al flusso del momento. Tuttavia, ho delle piccole abitudini che mi aiutano a entrare nel giusto stato mentale. Ricerco la solitudine, ascolto musica che mi ispira e mi immergo in un certo tipo di luce, che possa creare l’atmosfera ideale per il viaggio che sto per intraprendere. Ogni creazione è un viaggio interiore, e queste abitudini mi aiutano a sintonizzarmi con le emozioni che desidero far emergere nel mio lavoro.

 

Qual è il ruolo della luce nella tua arte?

La luce è il cuore pulsante del mio lavoro, senza di essa tutto rimarrebbe invisibile. È la luce che dà vita ai segni incisi sulla pellicola, svelando forme, colori, movimenti ed emozioni. Attraverso la luce, ciò che è nascosto nella materia emerge, trasformandosi in immagine e diventando narrazione. È un elemento essenziale, un ponte tra il mio gesto creativo e lo sguardo dello spettatore.  È la luce che completa l’opera, rendendo visibile ciò che altrimenti rimarrebbe imprigionato nella pellicola.

 

Che importanza ha la musica nella tua videoarte, e in particolare nella serie “What’s in a lamp?”? 

Nella serie What’s in a lamp?,  ho chiesto al compositore Carmine Calia di immergersi in questo viaggio insieme a me. Il Maestro Calia ha creato una colonna sonora indimenticabile, capace di trasformarsi in un vero e proprio personaggio all’interno della narrazione. La sua musica non si limita ad accompagnare le immagini, ma le influenza profondamente, dando forma al ritmo della storia e arricchendola di significati simbolici. In questo modo, la luce e le forme presenti in scena acquistano una nuova profondità emotiva. La musica diventa così una componente essenziale, capace di creare una connessione intensa con lo spettatore, amplificando le sensazioni e i temi che voglio esprimere.

 

Hai degli artisti di riferimento, maestri o influenze significative nella formazione della tua visione artistica?

Penso che la mia più grande influenza venga da mio padre. Fin da bambino sono cresciuto osservandolo dipingere, e ogni volta che parlava della sua arte, i suoi occhi si illuminavano. Questo mi riempiva di gioia e ha instillato in me un profondo amore per la creatività. Da adulto, invece, ho avuto la fortuna di lavorare con il maestro del cinema italiano, Vittorio Storaro. Vederlo all’opera è stata una delle esperienze più straordinarie della mia vita. Da lui ho imparato l’importanza della ricerca della bellezza nell’immagine, una lezione che ha plasmato profondamente il mio percorso artistico.

 

Come coltivi la tua creatività?

Coltivo la mia creatività attraverso un costante processo di sperimentazione, vivendo da eremita in casa, come fosse la mia tana. Aggiungere continuamente qualcosa alla tecnica o anche toglierlo è ciò che mi spinge a cercare qualcosa di diverso ma  cercando sempre di avere un segno sicuro e inimitabile. Questo desiderio di evoluzione e ricerca costante è il motore che mi sprona a coltivare il mio lavoro.

 

Come definiresti la creatività? Cosa significa per te essere creativo?    

Per me, la creatività è libertà. La creatività è quel flusso continuo che mi permette di vedere il mondo da prospettive diverse e di esprimermi in modi unici, cercando sempre di superare i miei limiti.

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Bloomingdale’s New York ospita una mostra esclusiva dedicata al design italiano, curata da Ferruccio Laviani. L’evento mette in scena pezzi iconici, tra cui la celebre lampada Orbital di Foscarini, celebrando l’eccellenza del Made in Italy.

Scopri la lampada Orbital

Dal 5 al 29 settembre 2024, Bloomingdale’s, storico department store di New York, sarà la sede dell’installazione “Italian Design: From Classic to Contemporary”, in collaborazione con il Salone del Mobile.Milano. Protagonista della mostra è il design italiano, in una scenografia d’eccezione a firma di Ferruccio Laviani.

Ispirato alle piazze metafisiche di Giorgio de Chirico, il pittore italiano noto per i suoi paesaggi urbani surreali e onirici caratterizzati da architetture classiche dalle prospettive distorte e ombre enigmatiche, il progetto di Ferruccio Laviani propone una scenografia in equilibrio tra installazione artistica e pop-up esperienziale, in cui i prodotti iconici del design italiano raccontano una storia di ingegno, produzione industriale d’eccellenza e alto artigianato.

“Ho aggiunto un tocco di contemporaneità e di radicalismo al linguaggio grafico del set. Combinando le influenze del movimento di design radicale degli anni ’60 con gli elementi metafisici di De Chirico abbiamo creato un’immagine unica e moderna. In questa immagine, i monumenti delle piazze sono gli oggetti del design che ho scelto tra i più rappresentativi del Made in Italy, come la lampada Orbital di Foscarini, arredi che oggi sono icone del nostro quotidiano, degne di essere esposte su un piedistallo”.

FERRUCCIO LAVIANI
/ Designer

Accanto alla mostra, una serie di talk e appuntamenti con figure di spicco nel panorama nazionale e internazionale dell’abitare offriranno alla comunità professionale newyorkese e agli appassionati di design un’opportunità unica per esplorare il patrimonio e l’innovazione del design italiano.

5 – 29 Settembre 2024
H. 10 – 20
Bloomingdale’s 59th Street
1000 Third Ave, New York, NY
6° Piano – Home/Furnishing department

“Per qualcuno può essere semplicemente fare luce. Foscarini 1983/2023” è la monografia edita da Corraini Edizioni che celebra i primi 40 di Foscarini, presentata in anteprima alla Milano Design Week 2024.

Il design, come lo intendiamo noi e chi lavora con noi, è dare senso alle cose attraverso il confronto, imparando senza sosta per realizzare non un’altra lampada ma quella particolare luce: che parla alle persone e le fa sentire a casa. Ogni azienda ha il suo modo di stare al mondo; il nostro ci porta a lavorare sulla complessità progettuale, perché fare impresa significhi fare cultura del progetto e produrre lampade cariche di senso, per aggiungere un capitolo, un paragrafo o semplicemente una frase alla lunga storia del design.
Nel volume “Per qualcuno può essere semplicemente fare luce. Foscarini 1983/2023” si raccontano le storie, le idee, i prodotti, con cui abbiamo accompagnato l’evoluzione del design della luce in questi primi 40 anni.

La monografia, a cura di Alberto Bassi e Ali Filippini ed edita da Corraini, è composta di sei percorsi tematici ciascuno comprensivo di un approfondimento critico e una selezione di lampade, con un regesto dell’intera produzione. Un volume di 320 pagine arricchito dagli autorevoli contributi di Aurelio Magistà, giornalista, autore e docente universitario; Gian Paolo Lazzer, sociologo e docente universitario, Beppe Mirisola, scrittore e Veronica Tabaglio, ricercatrice; Stefano Micelli, economista e docente universitario; Massimo Curzi, architetto e Beppe Finessi, architetto, ricercatore, critico, direttore di Inventario.

Testimonianze e ricordi per condividere e descrivere i valori e le specificità di Foscarini; dati e immagini che sottolineano il percorso compiuto, esaminando l’impatto nel sistema design italiano, con uno sguardo sempre proiettato al futuro in linea con la filosofia aziendale.

“Sono passati quarant’anni, ma quando accendiamo una nuova lampada è sempre come la prima volta. Perché c’è qualcosa di magico nell’attimo in cui un’idea, diventata un oggetto che illumina, mostra la sua luce. È il fascino ancestrale della nascita della luce – materiale immateriale che plasma il nostro mondo – che ci fa dire, ancora dopo quarant’anni, che la lampada più importante è sempre la prossima. E ci spinge a continuare a coltivare quei corti circuiti umani con progettisti, artisti, artigiani senza i quali nessun nostro progetto prenderebbe forma”.

Carlo Urbinati
/ Fondatore e Presidente Foscarini

Foscarini 1983 / 2023

Per qualcuno può essere semplicemente fare luce.

Le storie, le idee, i prodotti, nel racconto di un’azienda che da quarant’anni accompagna l’evoluzione del design della luce.
Una monografia edita da Corraini Edizioni a cura di Alberto Bassi e Ali Filippini.

Vuoi acquistare il libro?
Scoprilo su corraini.com

In un contesto dinamico e in continua evoluzione come quello del design, alcune creazioni riescono a resistere alla prova del tempo, diventando simboli iconici di innovazione e creatività. Havana di Jozeph Forakis è uno di questi, ed oggi celebra il suo 30° anniversario.

Scopri Havana

Una lampada iconica che è stata capace di entrare nelle case e nell’immaginario collettivo, diventando un nuovo archetipo di lampada. Nata nel 1993, Havana si è affermata come un oggetto luminoso nuovo: una lampada a mezza altezza, quasi una nuova tipologia, con un corpo diffusore importante e molto visibile, che diffonde luce dal centro. Una figura familiare, un “personaggio” con cui instaurare una relazione personale, facile da inserire in ogni ambiente, per caratterizzarlo con la sua luce calda.

Il processo di sviluppo, dall’idea al prodotto, è stato accurato e graduale. I primi prototipi, realizzati in vetro e vetroresina, risultavano pesanti e costosi e avevano il difetto di far passare poca luce – perdendo la leggerezza e ironia insita nel concept. In una mossa rivoluzionaria, si è presa la decisione di abbandonare il vetro a favore della plastica, segnando così un momento cruciale per Foscarini. Una scelta che ha contribuito in modo significativo a determinare ciò che è diventata Foscarini oggi. Un’azienda che sceglie di mettere sempre al centro il design, senza porsi limiti e senza fare compromessi, per sviluppare appieno lo spirito di ciascun progetto. Ricorda Jozeph Forakis:

“Havana fu la prima lampada in materiale plastico fatta da Foscarini. Era un po’ un rischio ma Foscarini, che si dimostrò molto coraggiosa, decise di azzardare questa novità assoluta.”

JOZEPH FORAKIS
/ Designer

Il successo di Havana non è stato privo di sfide. Inizialmente accolta con scetticismo da alcuni rivenditori, è diventata presto un archetipo del design. Il suo ingresso nella collezione del Museum of Modern Art (MoMA) di New York nel 1995 ha rappresentato un momento decisivo, confermando la sua rilevanza nella storia del design.

Nei suoi 30 anni di storia, Havana è stata presentata in varianti cromatiche e funzionali, inclusa una versione outdoor, senza mai perdere la sua forma distintiva e la sua straordinaria capacità di evocare un’eco emotiva con la sua presenza calda e familiare.

E-BOOK

30 Years of Havana
— Foscarini Design stories
Creativity & Freedom

Scarica l’esclusivo e-book dedicato ai 30 anni di Havana, con un’intervista approfondita a Jozeph Forakis e scopri di più sulla storia della lampada, il suo sviluppo, il coraggio che ci ha guidato nella scelta dei materiali e il suo impatto nel panorama del design.

Vuoi dare un’occhiata?

Chiaroscura è protagonista dell’installazione luminosa site-specific Luce Scalare sullo Scalone d’Onore della Triennale di Milano che accompagna all’ingresso della mostra Alberto Meda: Tensione e Leggerezza che affronta alcune delle caratteristiche compositive e metodologiche del maestro italiano.

Scopri Chiaroscura

In occasione della mostra che la Triennale di Milano dedica al grande maestro italiano, visitabile dal 6 ottobre fino al 24 Marzo 2024, Foscarini ha realizzato su progetto dello stesso Meda un’installazione site-specific per lo Scalone d’onore della Triennale, che vede protagonista 34 lampade CHIAROSCURA – 17 per ogni lato della scalinata – realizzate su misura, dalla più grande di oltre cinque metri di altezza (552 cm) alla più piccola con altezza 57 centimetri. Una scenografia luminosa, con diverse dimmerazioni della luce a creare una coreografia.

“Quando Marco Sammicheli mi ha proposto, quale curatore, di pensare a un’installazione “on site” per lo Scalone d’Onore della Triennale di Milano, in occasione della mia mostra personale, ho fatto un rapido sopralluogo e ho scoperto che le pareti laterali dello scalone non sono continue ma realizzate con colonne di marmo a sezione triangolare distanziate tra loro di 10 cm. Gli spazi tra una colonna e l’altra hanno altezze diverse, partono all’inizio dello scalone da una quota di circa 5 metri e arrivano all’ultimo gradino prima del mezzanino a circa 50 cm. Mi piaceva un intervento rispettoso dell’architettura, che si inserisse in modo discreto al fine di valorizzarla e così ho pensato che la luce potesse essere la soluzione. Nascondere degli elementi luminosi nelle fughe tra una colonna e l’altra poteva essere l’idea. Così ho pensato a Chiaroscura, il luminator a sezione triangolare, come le colonne, che ho progettato con mio figlio Francesco per Foscarini e alla sua caratteristica costruttiva, realizzato con estrusi di alluminio e di metacrilato, in grado quindi di avere lunghezze diverse, anche fino a 6 metri. È la tecnologia dell’estrusione e la sua intrinseca libertà dimensionale che mi hanno suggerito l’idea di realizzare un insieme luminoso “scalare” che fa luce dalle sue 3 facce sia sullo scalone ma anche sulle due scale che scendono al teatro. Mi sembrava interessante dare all’insieme anche un’altra dimensione, una dimensione luminosa dinamica e così con Foscarini abbiamo predisposto una soluzione elettronica per ottenere questo effetto”.

ALBERTO MEDA
/ ingegnere, designer e progettista

Espressione della capacità di Foscarini di rispondere ad esigenze specifiche di progettisti e interior designer, CHIAROSCURA racconta il carattere innovativo del marchio. Una luce che nasce nella contemporaneità e che deve la sua personalità distintiva al particolare effetto luminoso e all’originale sintonia tra forma e funzione.

Disegnata da Alberto con il figlio Francesco, CHIAROSCURA è la reinterpretazione contemporanea del classico luminator. Di carattere pur nella sua presenza così essenziale, capace di emanare luce a 360°, CHIAROSCURA nasce da una sfida progettuale: esplorare la possibilità di arricchire la funzionalità del classico luminator che per definizione emette solo luce indiretta verso l’alto. Il corpo elegante e leggero, illuminato totalmente, non più solo illuminante, è stato l’obiettivo che ha guidato la definizione della forma, la scelta dei materiali e delle tecnologie produttive.

Insieme a Foscarini, i Meda ne hanno infatti ampliato la funzionalità creando una struttura triangolare in estrusi di alluminio dotata di LED: una “gabbia” all’interno della quale è collocato un estruso in plastica opalina che diffonde la luce. A differenza dei luminator classici, CHIAROSCURA emette quindi luce d’ambiente ai lati e una luce indiretta a soffitto.
Il corpo sottile e visivamente leggero di CHIAROSCURA e la sua luce calda e accogliente, la rendono duttile, trasversale, in grado di portare la propria personalità discreta ad arricchire ambienti differenti, dal mondo residenziale al contract, dall’ufficio alla casa.

Chiaroscura è una lampada che – su richiesta e per particolari esigenze progettuali – può essere realizzata anche ad altezze diverse rispetto alla versione standard disponibile a catalogo.

Durante l’evento Festivaletteratura Mantova, il designer – e inventore – Marc Sadler ha affascinato il pubblico con intriganti aneddoti sulla sua carriera e il suo talento innovativo, in una conversazione con Beppe Finessi, sponsorizzata da Foscarini.

Sabato 9 settembre 2023, in occasione del Festivaletteratura, si è tenuto nella meravigliosa cornice del Teatro Bibiena di Mantova un talk con Marc Sadler, intervistato da Beppe Finessi. Sadler ha affascinato il numeroso pubblico intervenuto raccontando la sua lunga esperienza come designer industriale e inventore di soluzioni spesso innovative per il settore di riferimento. Come quando, negli anni ’70, dopo un incidente sulla neve che lo aveva costretto a letto in ospedale, iniziò ad immaginare di utilizzare la plastica per progettare dei nuovi scarponi da sci più sicuri, in un momento in cui erano ancora realizzati in pelle. Il risultato fu il primo scarpone da sci in materiale termoplastico. O quando progettò con Dainese una tuta da motociclista che fungesse effettivamente da protezione per gli atleti, come ad esempio con l’utilizzo del paraschiena, oggi indossato da numerosi campioni.

Come professionista che ha – da sempre – messo al centro del proprio lavoro l’innovazione, al servizio delle richieste dei clienti e delle esigenze di vendita, Sadler ha collezionato ben quattro Compassi d’Oro, tra cui quello per le lampade Mite e Tite di Foscarini, ottenuto nel 2001.

“Ho conosciuto Foscarini in un periodo in cui abitavo a Venezia e Mite è stato il primo progetto sviluppato insieme. Per me Foscarini era una piccola azienda che faceva vetro ed era una realtà lontana da ciò che facevo io. Un giorno, per caso su un vaporetto, ho conosciuto uno dei soci. Parlando del nostro lavoro e di ciò che facevamo, mi riferì di un tema sul quale stavano riflettendo. Mi chiese di pensare a un progetto che avesse il sapore incerto del vetro – quell’aspetto artigianale che è impossibile da controllare e che fa sì che ogni oggetto abbia la sua personalità – ma che si potesse produrre industrialmente, con una visione più integrata”.

MARC SADLER
/ Designer

Per Foscarini Sadler ha ideato anche l’iconica Twiggy «che è diventata, dopo l’arco di Castiglioni, il nuovo archetipo della lampada da terra, spesso utilizzata anche in numerose pubblicità di altre aziende», ha ricordato Beppe Finessi.

Illustrando i progetti più importanti della sua lunga carriera, Sadler ha evidenziato come abbia spesso trasferito le proprie conoscenze da un settore ad un altro, cercando ad esempio di trasportare le invenzioni del mondo dello sport al design industriale.

“Sono sempre stato versatile disegnando dalle scarpe alle lampade, dai banconi per i gelati alle vasche idromassaggio. Ascoltando le esigenze della committenza, ho cercato di disegnare oggetti che potessero rispondere alle esigenze di un pubblico. Questo è ciò che mi piace fare”

MARC SADLER
/  Designer

Spazio alla creatività nella nuova social strategy di Foscarini: Instagram diventa un palcoscenico in cui energia, libertà creativa e ricerca sono protagoniste. What’s in a lamp? è un progetto di storytelling per immagini, animazioni e video che prende forma in uno spazio artistico contemporaneo, seguendo come filo narrativo conduttore il brand Foscarini, la sua essenza, le sue ispirazioni e le sue collezioni.

Sempre alla ricerca di soluzioni originali e distintive – non solo nell’ambito del prodotto, ma anche nel modo di raccontarsi – Foscarini ripensa le convenzioni comunicative nei social media tipiche del settore ed evolve in modo inedito e distintivo il proprio storytelling, trasformando il feed del canale Instagram @foscarinilamps in un luogo virtuale che dà voce ad esponenti noti o emergenti del mondo delle arti visive, con l’obiettivo di regalare bellezza, divertimento, stupore.

Un progetto caleidoscopico in cui artisti e content creator internazionali di diversa estrazione – dall’arte digitale alla fotografia, dall’illustrazione alla motion art – sono invitati a lasciarsi ispirare e “giocare” con le lampade Foscarini, ognuna caratterizzata da stili, materiali, designer diversi tra loro.

“Foscarini è un’azienda che vive di idee, di curiosità, di voglia di sperimentarci e di sperimentare. Cercavamo una strada più distintiva, più nostra, per raccontarci sui canali social – una soluzione nuova che, confrontandosi con i limiti e le caratteristiche del mezzo, ci permettesse di dare spazio alla creatività, raccogliere stimoli e metterli in relazione, scambiando conoscenze e combinando esperienze. Questo nuovo progetto digitale darà spazio a contenuti originali che, attraverso suggestioni visive in cui la nostra luce è protagonista, ci faranno scoprire la potenza delle idee”

CARLO URBINATI,
/ Presidente e fondatore di Foscarini

Apre la scena Luca Font – poliedrico artista italiano – con una serie inedita di illustrazioni di ispirazione modernista dai tratti geometrici e vivaci, seguito dal noto illustratore israeliano Noma Bar – maestro del Negative Space. E poi: Federico Babina, Oscar Pettersson, Maja Wronska, Kevin Lucbert, Alessandra Bruni, Luccico, Stefano Colferai, Fausto Gilberti e tanti altri artisti. Voci, stili e interpretazioni uniche per raccontare pensieri, sensazioni ed emozioni suscitate dalle lampade Foscarini, per sottolinearne le forme, l’idea alla base del loro concept o l’effetto che queste producono in uno spazio. Un calendario denso di visioni inconsuete sul tema della luce; un percorso creativo espressione di una riflessione sul ruolo che giocano le lampade Foscarini nel trasformare e definire un’idea personale di casa.

Segui il progetto sul canale Instagram ufficiale @foscarinilamps e lasciati trasportare dalla magia e dalle suggestioni delle diverse interpretazioni creative.

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Diretto da Gianluca Vassallo, prodotto da Foscarini e White Box Studio, il film racconta l’icona dell’architettura radicale e fondatore del gruppo SITE James Wines, indagando lo stretto rapporto tra l’artista e l’individuo, tra la figura pubblica dell’architetto Wines e quella più intima e privata dell’uomo James.

Dopo aver trascorso la sua vita immaginando un mondo in cui tutto è decostruito, ironico, capovolto, audace e colto, Wines si trova di fronte a come “il mondo” lo vede, in una storia collettiva sull’artista-architetto, che diventa anche un film sull’impatto del pensiero laterale nella comunità, negli individui, nei processi di cambiamento che attraversano il mondo.

La storia della collaborazione tra Foscarini e James Wines si sviluppa in quasi 30 anni. Le sue radici risalgono al 1991, con Table Light / Wall Light, il primo pezzo realizzato da Foscarini con il gruppo SITE di Wines. Alcuni anni dopo, i percorsi di Foscarini e SITE si incrociano nuovamente, grazie ad un ampio profilo pubblicato su Inventario (il book-zine lanciato da Foscarini nel 2010 come forma originale e indipendente per indagare il mondo della creatività e della cultura del design).
Nasce così l’idea di Foscarini di rilanciare il primo progetto, trasformandolo in edizioni di lampade e oggetti: The Light Bulb Series è una collezione d’autore che nasce da una riflessione sulla lampadina come archetipo, con la sua tipica forma a bulbo, declinata in una serie di sorprendenti provocazioni.

Oggi Foscarini, con il suo spirito libero, lascia completamente la scena a Vassallo e a Wines, maestro dell’architettura contemporanea e di rottura.

“Indagare la profondità umana, a questo a mio avviso serve il cinema; a questo, ancora di più, il cinema di documentazione. Sarebbe stato facile scovare dell’ottimo materiale d’archivio, accoppiarvi un’intervista e servire al pubblico l’ennesima celebrazione di un artista e della sua opera. Ma il compito di chi, come me, nella produzione di senso – cinematica o fotografica che sia – porta le sue inquietudini, le curiosità, uno sguarda sul mondo che cerca di chiarirsi, di fronte ad una personalità come quella di Wines, non può che cercare la complessità dell’uomo che alimenta la grazia del genio, non può che indagare la profondità, le idiosincrasie, le paure, il caos di James, più che la gloria di Wines.”

Gianluca Vassallo
/ regista del film

Girato tra New York NY, Watertown MN, Washington DC, Miami, Stone Ridge NY e Roma tra l’ottobre 2021 e il febbraio 2022, il film è stato selezionato dai curatori del Milano Design Film Festival 2022, l’appuntamento annuale che da dieci anni utilizza il cinema per avvicinare il grande pubblico ai concetti più contemporanei di design e architettura, visti da prospettive non convenzionali.

La nascita della lampada-scultura Orbital ha rappresentato per Foscarini non solo l’inizio della collaborazione con Ferruccio Laviani, ma anche una dichiarazione d’intenti: abbiamo abbandonato per la prima volta il vetro soffiato di Murano, abbracciando il pensiero che oggi ci porta a gestire più di venti tecnologie diverse.

Se dovessi raccontare la collaborazione con Foscarini con un aggettivo, quale sceglieresti?

Ne userei due: proficua e libera. La prima parola ha un sapore pecuniario ma non va intesa in questo senso, o meglio non solo. Il fatto che quasi tutte le lampade che ho disegnato per Foscarini siano ancora a catalogo è un’ottima notizia sia per il mio studio che per l’azienda.
Ma la definisco proficua soprattutto perché aver disegnato oggetti che, a distanza di 30 anni, la gente ancora apprezza è un enorme sollievo per un progettista: è la conferma che quello che fa ha un senso.
C’è poi il tema della libertà creativa. Foscarini mi ha permesso di muovermi con estrema indipendenza espressiva dal prodotto agli spazi, senza mai imporre paletti di nessun tipo. È cosa veramente rara e preziosa.

 

Come mai, secondo te, siete arrivati a questa libertà espressiva e creativa?

Penso sia parte del modo di essere delle persone coinvolte. Se un progettista si guadagna la sua fiducia, Foscarini risponde lasciando una libertà di espressione totale. Sono coscienti del fatto che è il modo migliore di ottenere il massimo dalla collaborazione, per entrambe le parti. Ovviamente una volta constatato che al lavoro “di pancia” segue poi anche quello “di testa”. Nel mio caso Orbital è stata la scommessa iniziale: una lampada dall’estetica così connotata sarebbe piaciuta? Avrebbe resistito al test del tempo? La risposta del pubblico è stata affermativa e, da quel momento, il nostro sodalizio è sempre stato all’insegna della massima libertà.

Cosa significa questa libertà per un designer?

Dà la possibilità di sondare diverse sfaccettature del possibile. Per una persona come me, che non si è mai identificato in uno stile o un particolare tipo di gusto ma si innamora periodicamente di sapori, atmosfere, decori sempre diversi, questa libertà è fondamentale perché mi permette di esprimermi. Non ho pretese artistiche e sono ben conscio che quello che faccio è produzione: oggetti di serie che devono avere una funzione ben chiara e assolverla al meglio. Di fianco a queste considerazioni razionali, però, quello che mi agita nell’atto creativo è il desiderio. La voglia, quasi incontenibile, di dar vita a un oggetto che non c’è: qualcosa che vorrei avere come parte della mia vita.

Come sono questi oggetti che desideri e quindi progetti?

Non ho una risposta dal punto di vista dello stile: faccio cose sempre diverse perché mi sento sempre diverso e riempio i miei spazi fisici e mentali con presenze che variano nel tempo e riflettono questi paesaggi personali. Mi affascina però tutto quello che crea un legame con le persone e tra le persone. Alle cose che progetto quindi do sempre un carattere: quello che a mio avviso riflette al meglio il mio modo di interpretare lo spirito del tempo. A volte dell’attimo. Questo è molto più vero per una lampada piuttosto che per un altro elemento d’arredo perché una lampada decorativa si sceglie per un’affinità, per quello che dice a noi e di noi. È l’inizio di un dialogo ideale tra il designer e l’acquirente. Se poi quella lampada continua a parlare alla gente anche dopo 30 anni vuol dire che quella conversazione è rilevante e ancora riesce a dire qualcosa di significativo.

L’evento per il trentennale di Orbital è stato anche occasione di presentare ufficialmente il nuovo progetto fotografico NOTTURNO LAVIANI, con una mostra dedicata a Foscarini Spazio Monforte. In questo progetto Gianluca Vassallo interpreta le lampade che Laviani ha disegnato per Foscarini in una narrazione che procede per episodi, con quattordici scatti in cui le luci abitano spazi alieni.

Scopri di più su Notturno Laviani

Cosa provi davanti all’interpretazione che Gianluca Vassallo ha fatto delle tue lampade?

La sensazione di un cerchio che si chiude. Perché Gianluca racconta una sua idea di luce usando gli oggetti che ho disegnato come sottili ma significative presenze. Ed è lo stesso che accade quando una persona decide di mettersi in casa una mia lampada. Davanti a Notturno provo dunque quella stessa grande emozione che provo quando qualcuno si impossessa di un mio progetto e lo rende partecipe della sua esistenza: la sensazione è quella – bellissima – di aver fatto qualcosa che ha un senso e una rilevanza per gli altri.

 

Qual è lo scatto che più ti rappresenta?

Senz’altro quello della Orbital in esterno: il cavalcavia con il manifesto stracciato del circo. Perché io sono così: tutto e il contrario di tutto.

E-Book

30 Years of Orbital
— Foscarini Design stories
Creativity & Freedom

Scarica l’esclusivo e-book Foscarini Design stories — 30 years of Orbital e scopri di più sulla collaborazione tra Foscarini e Laviani. Una collaborazione proficua, nata da un’affinità elettiva, che si è sviluppata in tre decenni come un percorso di crescita comune.

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In un coinvolgente talk condotto da Beppe Finessi nell’ambito di Festivaletteratura 2022, Ferruccio Laviani ha condiviso la sua passione e il suo approccio unico al design degli oggetti e delle esperienze.

Il 10 settembre 2022, presso il suggestivo Teatro Bibiena, si è tenuto il talk “Infatuati dagli Oggetti”, con il designer Ferruccio Laviani intervistato da Beppe Finessi. Laviani ha portato il pubblico in un viaggio affascinante attraverso la sua esperienza nel mondo del design. Partendo dalle sue radici nella scuola di liuteria e passando attraverso il disegno di mobili, ha condiviso le sue riflessioni sulla creazione di oggetti che vanno oltre la mera funzionalità, cercando di suscitare emozioni e connessioni personali.

“Di vetrine colme di sedie, lampade e tavoli è pieno il mondo, perché mai uno dovrebbe prenderne uno nuovo disegnato da me? La risposta è semplice: far sì che le persone vedano i miei prodotti con gli stessi occhi di quando si innamorano di qualcuno”.

FERRUCCIO LAVIANI
/ Designer

Con umiltà e sincerità, il designer cremonese ha raccontato aneddoti sulla sua carriera offrendo uno sguardo intimo sulle sue opere più iconiche e sulle sfide affrontate lungo il percorso creativo. Stimolato dalle domande di Beppe Finessi, Laviani ha condiviso la sua filosofia dietro alla creazione di oggetti che mescolano stili e influenze diverse, dando vita a creazioni che sfidano il tempo e gli stili convenzionali, aprendo nuove prospettive sulla creatività e sull’estetica contemporanea.

Per rivivere l’esperienza del talk e immergerti nell’universo di Ferruccio Laviani, non perderti il video dell’evento.

Guarda il video del talk

Laboratorio di pura sperimentazione sulla luce condotta da Foscarini con Andrea Anastasio e Davide Servadei di Ceramica Gatti 1928, il progetto Battiti è un’esperienza di totale libertà che apre a nuove interpretazioni sulla luce, che qui assume il carattere di materia nel dialogo con la ceramica.

Nel progetto Battiti, presentato in mostra al Fuori Salone 2022, la luce viene impiegata non per illuminare ma per costruire. Come fosse un materiale: che realizza effetti, sottolinea forme, imbastisce ombre. Perché è questo che fa Andrea Anastasio quando mette mano alle opere dell’archivio della bottega Gatti, smembrandole e poi riassemblandole seguendo il solo istinto primordiale di chi crea per desiderio, passione e necessità: ribalta la logica tradizionale e arriva a una logica nuova, interpreta la storia dandole un senso e un significato diverso. E, in questo atto che è creazione e scoperta insieme, Anastasio usa la luce che diventa così anche strumento di dialogo con chi osserva. I tagli di luce, elementi attivi e “vivi” nei bassorilievi e nelle sculture di Anastasio, sono quindi un incipit di una nuova relazione tra gli oggetti che li accolgono e chi li guarda.

“Battiti è iniziato con una riflessione sulla relazione millenaria tra la luce e la ceramica, un viaggio che va dalle lanterne a olio alle edicole religiose e che accompagna la forma della visione, nelle sue numerose manifestazioni. Poi, si è fatta strada un’altra osservazione e ho cominciato a sezionare pannelli ceramici provenienti da calchi dell’archivio Gatti di Faenza e a scomporli in modo sistematico. Portare la luce in questa serie di lavori é stato un lento processo seguito a un’intuizione immediata, come spesso accade quando si desidera restituire l’impatto di una visione che ci cattura e che allo stesso tempo ci sfugge, proprio perché impalpabile. Così, una volta ancora, il dialogo tra ornamento e luce diventa occasione di consapevolezza del ruolo che la luce svolge nel nostro quotidiano divenire e della sua capacità di ricordarci l’illusorietà del continuo e la vanità del compiuto.”

ANDREA ANASTASIO
/ Designer

Una ricerca frutto della libertà che da sempre caratterizza Foscarini, azienda senza fabbrica, che vive di idee, di immaginazione. Una libertà che rende possibile – anzi necessario – esplorare ogni volta i materiali e le modalità di produzione più adeguati a sviluppare nel modo migliore ogni nuova idea. Un approccio differenziante per una realtà industriale con una profonda anima artigianale. Un’operazione, lontana da logiche commerciali, tipica dell’identità di Foscarini che da sempre crede nell’innovazione e nella costante ricerca di senso.

“Solo andando fuori dal seminato si ha il coraggio di immaginare idee nuove. Solo ascoltando e condividendo visioni con persone che appartengono ad altri mondi si capisce dove ha senso andare. Solo condividendo la passione vera dei creatori si coglie il senso della parola progetto, nella sua accezione più pura e autentica”

CARLO URBINATI
/ Presidente e fondatore di Foscarini

E-BOOK

BATTITI —
Foscarini Artbook series #1
Research & Developement

Scarica l’esclusivo e-book “Foscarini Artbook series — Battiti” che racconta questa ricerca, ispirata dal solo desiderio di esplorare nuovi linguaggi espressivi, significati e modi di fruire la luce. Approfondimenti critici di Carlo Urbinati, Andrea Anastasio e Franco La Cecla. Fotografie di Massimo Gardone.

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Dopo la selezione da parte dell’ADI Design Index 2021 per concorrere al Premio Compasso d’Oro, la primavera 2022 segna un nuovo significativo capitolo per VITE, il progetto multimediale di Foscarini che a partire dal mese di maggio sarà distribuito da Corraini nei migliori bookshop e librerie di tutto il mondo.

Corraini e Foscarini ancora una volta insieme con VITE, racconto per immagini, video e parole, che esplora il diverso senso di casa, il rapporto con la luce, la relazione tra la vita in casa e lo spazio esterno. L’editore – che con il marchio di illuminazione decorativa condivide l’attitudine alla sperimentazione e alla continua ricerca e con cui già collabora per il book-zine Inventario – distribuirà ora anche il libro VITE di Foscarini nei migliori bookshop e librerie del proprio network.

VITE è un affascinante progetto editoriale con cui Foscarini parla di luce partendo non dalle proprie lampade – chi le disegna, sviluppa o produce – ma dalle persone che vivono negli spazi che le lampade illuminano.

Presentato nel 2020 e selezionato da ADI Design Index 2021, VITE è un viaggio che ci porta tra città del Nord, Sud, Est e Ovest, all’interno di ambienti veri, a incontrare persone reali – accompagnati dall’artista, fotografo e videomaker Gianluca Vassallo e dallo scrittore Flavio Soriga. Al centro dell’obiettivo e della narrazione sono le persone, mentre lo sguardo viene lasciato libero di aggirarsi in ambienti personali, veri e pertanto anche imperfetti, molto lontani dalla comunicazione tipica del mondo del design in cui Foscarini opera, che spesso teme l’imperfezione, quella che caratterizza la vita. Con il progetto VITE non vediamo più̀ set fotografici, ma case vissute, quotidiane, che ci raccontano da vicino le storie delle persone che le abitano.

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Mite è la lampada che ha segnato l’inizio dell’ormai storica collaborazione tra Foscarini e Marc Sadler: un progetto che sovverte gli schemi assecondando quelli che il designer definisce “picchi di irragionevolezza”, l’attitudine che permette di esplorare tutte le potenzialità di un materiale e di una tecnologia.

Nel 2001 Mite è stata premiata con il Compasso d’Oro ADI, il più autorevole premio mondiale di design, insieme alla versione da sospensione Tite. Sono trascorsi vent’anni da allora, e riteniamo che questo evento, come il carattere iconico e senza tempo di Mite, meriti una celebrazione adeguata. Nasce così Mite Anniversario, che fa evolvere il concetto originale di Mite attraverso ulteriori sperimentazioni e variazioni. In questa importante occasione abbiamo intervistato Marc Sadler e fatto un’interessante chiacchierata su Mite, Tite e sul design legato all’illuminazione.

 

COME È INIZIATA LA COLLABORAZIONE CON FOSCARINI PER LA LAMPADA MITE?

MS — “Ho conosciuto Foscarini in un periodo in cui abitavo a Venezia e Mite è stato il primo progetto sviluppato insieme. Per me Foscarini era una piccola azienda che faceva vetro ed era una realtà lontana da ciò che facevo io. Un giorno, per caso su un vaporetto, ho conosciuto uno dei soci. Parlando del nostro lavoro e di ciò che facevamo, mi riferì di un tema sul quale stavano riflettendo. Mi chiese di pensare a un progetto che avesse il sapore incerto del vetro – quell’aspetto artigianale che è impossibile da controllare e che fa sì che ogni oggetto abbia la sua personalità – ma che si potesse produrre industrialmente, con una visione più integrata. Ci siamo lasciati salutandoci, promettendogli di pensarci.”

 

QUAL È STATA L’IDEA PRINCIPALE CHE HA DATO IL VIA A QUESTO PROGETTO?

MS — “Stavo andando a Taiwan per un progetto di racchette da tennis e di mazze da golf per un’azienda che lavorava la fibra di vetro e la fibra di carbonio. Quello è un mondo per cui i prodotti hanno grandi numeri, non pochi esemplari. La racchetta, quando la si produce, quando esce dagli stampi, è bellissima; poi le persone che la lavorano cominciano a pulirla, a rifinirla, a verniciarla, a ricoprirla di vari elementi grafici e così pian piano perde parte del fascino della fase produttiva. Alla fine hai un oggetto che è carico di segni che nascondono la vera struttura e il prodotto finale risulta per me sempre meno interessante del prodotto nella fase iniziale. Per il mio lavoro di progettista preferisco il prodotto allo stato grezzo, a monte delle finiture, quando è ancora un oggetto “mitico”, bellissimo, perché la materia vibra. Proprio guardando questi pezzi in controluce si vedevano le fibre, e ho notato come la luce trapassava la materia. Mi sono preso un po’ di questi campioni e li ho portati a Venezia. Appena tornato ho chiamato Foscarini e ho detto loro che stavo pensando ad un modo di usare questo materiale. Anche se la fibra di vetro, fatta di pezze di materiale ha dei limiti nelle sue incertezze di lavorazione, io pensavo a un oggetto da produrre industrialmente. Proporlo a loro era un po’ un azzardo perché ci volevano grosse quantità di produzione per giustificarne l’uso e non era un materiale troppo versatile e adattabile. Se fossimo però riusciti a tenerlo in quell’affascinante stato materico, sarebbe stata una bellissima occasione di applicarlo a un progetto di illuminazione.”

COME È STATA LA FASE DI RICERCA E SVILUPPO?

MS — “Abbiamo suonato a tanti campanelli di fornitori che usavano gli stessi materiali e le stesse tecniche per produrre vasche per i vini o attrezzi sportivi, ma purtroppo non si sono resi disponibili a collaborare per questa ricerca sperimentale. Non perdendoci però d’animo, abbiamo continuato a cercare, fino a trovare un imprenditore che lavorava questo materiale anche per le sue ricerche personali (si era costruito un deltaplano a motore). Lui si è appassionato al progetto e si è subito reso disponibile. Aveva un’azienda che produce canne da pesca straordinarie e molto particolari, ma ha deciso di lanciarsi con noi nel mondo della luce. Ci mandava dei campioni di prove che faceva in autonomia, chiedendoci pareri su nuove resine e nuovi filati. Il design è fatto di persone che agiscono e interagiscono insieme. Questa è una magia tutta italiana. Spesso in aziende nel resto del mondo aspettano che arrivi il designer che, come un supereroe, ti consegni tutto già pronto, chiavi in mano. Ma non funziona così: per fare dei progetti veramente innovativi serve un confronto continuo in cui si trovano i problemi e si risolvono insieme. A me piace lavorare così.”

 

SONO STATI SVILUPPATI MODELLI E PROTOTIPI DI STUDIO?

MS — “Il primo modello era fatto con uno stampo chiuso tradizionale, poi ci è venuto in mente di provare un’altra tecnica – il “rowing” – che si basa sull’avvolgimento di fili attorno a un corpo pieno. Osservando i fili che si potevano usare, ho trovato delle matasse considerate difettate, in cui il filo non era perfettamente lineare, ma risultava un po’ vibrato. Questo tipo di filo è diventato poi quello impiegato nella produzione finale. Le fibre non sono tutte regolari: noi abbiamo voluto valorizzare questo “difetto” che lo ha trasformato in una qualità sempre unica. Abbiamo voluto spogliarci del senso di tecnicità e abbiamo voluto portare il valore della manualità e un sapore materico caldo, come si sa fare in Italia. In un prototipo iniziale avevo troncato la sommità con un taglio a 45 gradi inserendo un faro di automobile. Se rivedo oggi quel primo prototipo mi disturba un po’, ma è assolutamente normale perché rappresenta l’inizio di un lungo percorso di ricerca. Per arrivare a un prodotto semplice, bisogna lavorare molto. All’inizio il mio segno era troppo forte, quasi violento. Foscarini è stata brava a mediarlo, ed è giusto così, questo è il design. È il giusto equilibrio tra le parti in campo per fare insieme un’opera comune. Solo lavorando con Foscarini, che sa trattare la luce, che sa dare quel sapore alle trasparenze e quel calore alla matericità, abbiamo fatto sì che il prodotto raggiungesse la sua giusta proporzione e autenticità. Siamo riusciti a ottenere un oggetto molto più netto, pulito, per cui la cosa importante è la luce che produce, la trasparenza del corpo e la vibrazione che si visualizza nel disegno. Non un oggetto che urla, ma un elemento dolce che entra nelle case.”

 

QUALI SONO LE SFIDE SPECIFICHE DI UN PROGETTO CON LA LUCE?

MS — “Dopo questa lampada e dopo questo approccio ai materiali compositi, mi sono un po’ ritrovato l’etichetta del designer che fa lampade con materiali ricercati. Questo non mi disturba, anzi, è ciò che insieme a Foscarini amiamo fare. Quindi oggi se trovo nelle mie ricerche qualcosa di interessante o di non ancora utilizzato per il mondo della luce, Foscarini è l’azienda con la quale potrei avere il miglior potenziale per sviluppare qualcosa di originale e innovativo.”

 

QUALI SONO GLI ASPETTI PIÙ SIGNIFICATIVI DELLA TECNOLOGIA LUMINOSA IMPIEGATI PER QUESTO PROGETTO?

MS — “La tecnologia luminosa in 20 anni è evoluta moltissimo, per cui ora utilizziamo il LED. Rispetto alla tecnologia del passato, è un po’ come pensare alla differenza che c’è tra un motore a iniezione elettronica e uno a carburatore. Anche con il carburatore si potevano ottenere ottimi risultati, ma serviva un genio che sapeva ascoltare il motore e poi regolava tutto manualmente. Per Mite è successa un po’ la stessa cosa. Nella prima versione avevamo messo una lampadina piuttosto lunga posizionata ad una certa altezza. Per chiudere il fusto abbiamo modellato una lastra circolare di metallo cromato con certi angoli che abbiamo sperimentato con diverse inclinazioni, per riflettere la luce diretta verso l’alto ma anche per far scendere la luce nel corpo della lampada, permettendo alla luce di lambire il materiale retro-illuminandolo. Ovviamente quella tecnologia poneva dei limiti alla libertà di azione, mentre oggi con i LED possiamo portare l’effetto luminoso esattamente dove vogliamo.”

 

COM’È CAMBIATO IL LAVORO DI PROGETTISTA IN QUESTO PRIMO VENTENNIO DEL NUOVO MILLENNIO?

MS — “Io sono felice oggi con il mio lavoro perché mi sembra di essere ritornato negli anni ‘70, quando l’imprenditore contava molto e metteva sul tavolo delle intenzioni chiare fatte di obiettivi, un programma di tempi, il giusto denaro e – sapendo di aver lavorato bene fino a quel punto – aveva l’intenzione di voler andare dove non era mai andato. Sarà questo periodo molto duro della pandemia, sarà che comincio a far fatica a lavorare con le grandi aziende multinazionali come quelle orientali, ma penso che sia tornato il momento di rimettersi a lavorare direttamente con degli imprenditori in prima persona.”

QUANTO È IMPORTANTE IL “TRASFERIMENTO TECNOLOGICO” NELLE RICERCHE DI DESIGN?

MS — “È fondamentale. Il mio lavoro si potrebbe vedere come il principio dei vasi comunicanti. Prendo una cosa da una parte, la “tiro” e la porto in un’altra parte per vedere cosa succede. L’ho sempre fatto per tutta la vita. Nel mio studio c’è un’officina dove con le mie mani posso costruire o riparare qualunque cosa e questo mi aiuta molto. Non è il concetto di sapere dove sta lo “sky’s limit”, però penso molto prima di dire di no a qualcosa, perché spesso ci sono già delle soluzioni altrove e quindi basta capire come trasferirle.”

 

QUESTA LAMPADA È FATTA DI UN “TESSUTO” (TECNOLOGICO) AUTOPORTANTE: CHE IDEA RELAZIONA IL TESSILE CON IL DESIGN DELLA LUCE?

MS — “In Mite l’importanza del tessuto è data dal vantaggio di poter avere una trama che fa vibrare la luce quando passa dal corpo e non è stato semplice trovare il giusto tessuto. Ma con il tessuto, nelle sue infinite variabili, si possono sempre fare cose meravigliose con la luce e infatti con Foscarini stiamo continuando a sperimentare e sviluppare nuovi progetti.”

 

COSA SIGNIFICA IL NOME MITE E LA SUA VARIANTE DA SOSPENSIONE TITE?

MS — “Il nome deriva da un gioco verbale in francese che mia madre mi aveva insegnato da bambino, per ricordarmi la differenza tra le conformazioni calcaree nelle caverne, divise in quelle che salgono dal basso, le stalagmiti, e quelle che scendono dall’alto, le stalattiti. Da qui l’idea del nome. Anche se inizialmente pensavo alla logica della forma che si assottiglia allontanandosi dal pavimento o dal soffitto – quindi i nomi delle due lampade dovrebbero essere invertiti – questa logica funziona bene comunque anche per assonanza tipologica: la (stalag)MITE è appoggiata a pavimento e la (stalag)TITE pende dal soffitto.”

Era il 1990 quando Foscarini presentò una lampada di vetro soffiato, caratterizzata dall’abbinamento con un treppiede di alluminio, nata dall’incontro con il designer Rodolfo Dordoni che rileggeva con un nuovo spirito la classica tipologia dell’abat-jour. Quella lampada si chiamava Lumiere.

Scopri Lumiere

Quando e come nasce il progetto Lumiere (la scintilla, chi erano gli attori iniziali, i fautori)?

Stiamo parlando di diversi anni fa, per cui ricordare chi fossero gli attori richiede uno sforzo di memoria che alla mia età forse non è così semplice.
Quello che posso dire è il contesto in cui è nata Lumiere. Era un periodo nel quale avevo iniziato a lavorare con Foscarini su una sorta di cambiamento dell’azienda. Mi avevano chiamato per una regia generale, che poteva essere una specie di direzione artistica della nuova collezione, perché la loro intenzione era di cambiare l’impostazione dell’azienda.
Foscarini era una azienda pseudomuranese, nel senso che risiedeva a Murano ma aveva una mentalità non esclusivamente muranese. Abbiamo iniziato a lavorare su questo concetto: conservare l’identità dell’azienda (l’identità delle origini dell’azienda, quindi Murano-Vetro) ma differenziandoci rispetto all’atteggiamento delle altre aziende muranesi (cioè fornace-vetro soffiato) cercando di aggiungere al prodotto dei dettagli tecnologici che lo caratterizzassero, e rendessero Foscarini più un’azienda di “illuminazione” che di “vetro soffiato”. Questo concetto era la linea-guida per la Foscarini del futuro, all’epoca.

 

Dove viene partorita Lumiere? E cosa ha portato alla sua forma-funzione (i paletti progettuali, i materiali vetro soffiato e alluminio)?

Sulla base della linea-guida di cui ho appena parlato, abbiamo iniziato a immaginare e disegnare prodotti durante degli incontri. A uno di questi incontri, credo fossimo ancora nella vecchia sede di Murano, ho fatto uno schizzo su un foglietto, un disegno davvero piccolo su un foglio di carta che sarà stato 2×4cm: questo cappello di vetro con un treppiedi, tanto per far capire l’idea di associare vetro e fusione, e allora la fusione di alluminio era un argomento molto contemporaneo, nuovo.
Quindi l’idea di questo piccolo treppiedi con la fusione e il vetro esprimeva, più che il disegno di una lampada, un concetto più generale: “come mettere insieme due elementi che fossero la caratteristica dei prodotti futuri dell’azienda”. Questa fu, in pratica, l’intuizione.

 

Un momento che ricorda più di altri quando si parla di Lumiere (un colloquio con la committenza, una prova in azienda, il primo prototipo).

Beh, sicuramente il momento in cui Alessandro Vecchiato e Carlo Urbinati dimostrarono attenzione per il mio schizzo, per l’intuizione. Ricordo che Sandro diede un occhio al disegno e disse: “Bella, dovremmo farla”. In quello schizzo è stato subito intravisto il prodotto. E anch’io pensavo che quel disegno potesse diventare un prodotto vero e proprio. Da lì è nata Lumiere.

 

Viviamo in una società “brucia&getta”. Cosa si prova ad avere progettato un successo che dura da 25 anni?

Erano decisamente momenti differenti. Prima, quando si progettava, le considerazioni che le aziende facevano erano anche in termini di investimento, e di ammortamento nel tempo dell’investimento. Quindi le cose che si disegnavano erano più ponderate.
Adesso non è che siano cambiate le aziende, è cambiato il mercato, è cambiato l’atteggiamento delconsumatore, che è diventato più “volubile”. Il consumatore di oggi è abituato da altri settori merceologici (vedi moda e tecnologia) a non desiderare cose “durature”. Quindi anche le aspettative che le aziende hanno nei confronti del prodotto sono sicuramente più brevi. Quando succede che un prodotto (come Lumiere) vive per così tanto tempo in termini di vendibilità, vuol dire che è autosufficiente. Si tratta cioè di un prodotto che non ha badato necessariamente alle tendenze, al momento. E proprio per questo, in qualche modo, attira. E stimola piacere. Sia in chi l’acquista sia in chi l’ha progettato.
Personalmente mi fa piacere che Lumiere sia un “segno” che ha ancora una sua riconoscibilità e una sua attrattiva!

 

In che modo questo contesto ha “lasciato il segno”, se lo ha fatto, sulla pelle e nella mente di Rodolfo Dordoni, uomo e architetto?

Penso a due momenti importanti che hanno segnato il mio lavoro. Il primo è l’incontro con Giulio Cappellini, che è stato mio compagno di Università. In seguito, sono stato io suo compagno di lavoro, nel senso che una volta finita l’Università mi ha chiesto di lavorare in azienda con lui. Grazie a questo incontro ho potuto conoscere il mondo del design “da dentro”. Per 10 anni ho lavorato e conosciuto il settore dell’arredamento in tutti i suoi aspetti. La mia è quindi un’impostazione che conosce “nella pratica” tutta la filiera del prodotto design.
Questo porta direttamente al secondo dei miei momenti importanti.
Grazie a questa “pratica”, a questa mia conoscenza sul campo, quando le aziende si rivolgono a me sanno che non è solo un prodotto ciò che stanno chiedendo, ma un ragionamento. E spesso capita che questo ragionamento porti a costruire con le aziende dei rapporti che diventano lunghi confronti, lunghe conversazioni. Queste chiacchierate aiutano a conoscere l’azienda. E la conoscenza dell’azienda è una parte fondamentale nell’analisi del progetto. Mi piace lavorare, e in questo sono un po’ viziato, con persone con cui condivido una sorta di similitudine d’intenti e di obiettivi da raggiungere. Così si ha la possibilità di crescere insieme.

 

Anni ’90: “googlando” compaiono le Spice Girls, i Take That e il Jovanotti di “È qui la festa?”, ma anche “Nevermind” dei Nirvana e il brano degli Underworld che faceva da colonna sonora al fi lm Trainspotting, “Born Slippy”. Se pensa ai suoi anni ’90 cosa le viene in mente?

Gli anni Novanta sono stati per me l’inizio di una progressiva incomprensione tecnologica. Vale a dire che tutto quello che è successo dall’LP musicale in poi, tecnologicamente parlando, io ho cominciato a non capirlo più. Mi sono ritrovato spesso a pensare che, quando ero ragazzo, criticavo spesso mio padre che consideravo tecnologicamente inadeguato. Bene, il suo essere inadeguato rispetto a me era minimo, se penso alla mia “inadeguatezza tecnologica” rispetto ai miei nipoti, per esempio. Diciamo che negli anni Novanta ha avuto inizio il mio “isolamento tecnologico”!

 

Cos’è rimasto immutato per Rodolfo Dordoni progettista?

Il disegno. Lo schizzo. Il tratto.

Un’inedita mostra fotografica di UMassimo Gardone. Scatti capaci di offrire nuove prospettive sulla collezione, con gigantografie che portano in primo piano i volumi del prodotto e accolgono i visitatori della Biennale come grandi architetture.

Visioni che evocano un mondo senza tempo, quasi fantascientifico. La ruota panoramica di Londra o il museo Guggenheim. Cisterne d’acqua, enormi tralicci elettrici o i grattacieli di Shanghai. Monumental proietta uno sguardo inedito sulle lampade della collezione Foscarini, trasformandole in una visione di universi alternativi. Grandi strutture architettoniche sotto un cielo senza tempo.
Dall’immaginario di Massimo Gardone, una collezione di scatti fotografici che interpreta in maniera originale alcuni prodotti di Foscarini, presentata in anteprima presso l’Arsenale in occasione della 14^ Mostra Internazionale di Architettura di Venezia.

 

“Ho giocato col fatto che queste lampade si stanno trasformando in architetture, ispirandomi ad Irving Penn o alle atmosfere del film Metropolis di Fritz Lang, ai bianchi e neri. I cieli grigi – che fanno riferimento al mondo dei grigi di Sugimoto – diventano quasi una pelle di queste strutture: le lampade non sono ritagliate e messe nel cielo, ma sono affondate, moltiplicate, fanno parte dell’universo, di questi mondi immaginari e sospesi.”

MASSIMO GARDONE
/ FOTOGRAFO

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