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Dentro il Progetto: Francesca Lanzavecchia racconta la sua proposta di chandelier

08/04/2025
9 min read

Francesca Lanzavecchia sa esattamente cosa vuole: progettare oggetti che non lasciano indifferenti. Non si tratta solo di estetica, ma di quell’intensa risonanza emotiva che i suoi progetti devono saper evocare.

Per lei, il design è innanzitutto risoluzione di conflitti, un concetto che racchiude più sfumature. Significa creare oggetti di affezione, ideare soluzioni che favoriscano un rapporto empatico tra le persone e le cose, affinché queste vengano curate e valorizzate nel tempo. Significa rispettare la diversità dei corpi, inserire sottili dissonanze visive che generano connessione emotiva e trasformare gli oggetti in metafore, invitando a guardare oltre l’apparenza.
Tutti questi principi trovano espressione in Allumette e Tilia, i due chandelier che ha progettato per Foscarini.

Cosa pensi che cercasse Foscarini chiedendoti di collaborare a questo progetto?

«Con Foscarini ci siamo avvicinati in occasione del Salone del Mobile e l’interesse è stato immediato e reciproco. Da parte loro, credo volessero capire come il mio approccio – la costante ricerca di stupore e meraviglia nel quotidiano – potesse dialogare con il loro linguaggio. Da parte mia, mi ha sempre affascinato la loro visione del design, non come mera industria, ma come una fabbrica di sogni, capace di comunicare umanità attraverso i progetti, sempre arricchiti da una sottile sfumatura surreale.
Dentro questa complessità ho colto l’opportunità di esplorare nuovi modi di interpretare la luce e di lavorare a un progetto che non fosse fine a se stesso. Non a caso, già dal primo briefing, la dualità tra leggerezza e presenza, ordine e disordine, è emersa come un tema chiave».

 

È raro, per una designer oggi, trovare questo genere di visione?

«A livello di storytelling, questa visione sembra condivisa da molti, ma è raro trovare un’azienda che la applichi in modo autentico e sistematico dall’interno – non solo come strategia di comunicazione, ma come principio fondante del progetto, fin dalla sua origine.
Oggi c’è un forte bisogno di leggerezza e di nuove narrazioni, ma senza un approccio genuino e strutturato, come quello di Foscarini, queste tensioni difficilmente si trasformano in progetti concreti che arrivano sul mercato. Più spesso, vediamo prodotti guidati dalle esigenze del marketing, a cui vengono sovrapposte narrazioni di esplorazione che, in realtà, non è mai avvenuta».

 

I due chandelier a confronto…

«In comune hanno il fatto di non essere prodotti singoli. Entrambi sono centro-stanza importanti ma abitano lo spazio con leggerezza, trovando un equilibrio sottile tra tecnologia, espressione e poesia. Infine sia Allumette che Tilia sono stati pensati per fare luce in modo evocativo e trasformare ogni ambiente in un luogo più intimo, vivo e vibrante».

 

Dal punto di vista del punto di partenza del progetto, però, sono due sistemi molto diversi.

«Allumette è costruito sul bilanciamento tra opposti – pieni e vuoti, presenze e trasparenze: l’ho progettato seguendo un approccio “ingegneristico” che esalta struttura, tensione geometrica e asimmetrie. Mentre Tilia si ispira alla crescita spontanea e alla fluidità delle forme naturali ed è una rappresentazione plastica delle invisibili regole che portano le strutture naturali a crescere nello spazio: i delta dei fiumi, le venature delle foglie, le formazioni coralline».

 

Perché hai seguito due direzioni così diverse?
«Indago sempre più strade. Mi piace coinvolgere scienza, tecnologia e fisica senza rinunciare a creare oggetti familiari, intuitivi, quasi delle epifanie visive e tattili.
Con Allumette, il punto di partenza era la scomposizione di uno chandelier nelle sue parti essenziali: ho lavorato su elementi tecnologici, triangolazioni, equilibri irregolari, cercando di trasformare un oggetto complesso in una struttura che giocasse con il contrasto tra tensione e leggerezza.
Con Tilia, invece, ho voluto esplorare un’idea di crescita più organica, ispirata ai processi naturali: ramificazioni, geometrie frattali, strutture reticolari. Ho cercato di codificarle e trasformarle in un sistema di luce che potesse espandersi nello spazio come un albero allunga i suoi rami verso il sole».

Vediamoli uno per uno. Qual è l’essenza di Allumette?

«È una famiglia di chandelier piuttosto che un singolo oggetto, costellazioni centro-stanza che bilanciano opposti: leggerezza e presenza, geometrie rigide e linee morbide. Allumette è stata pensata come una coreografia, una presenza che cambia a seconda dell’angolo da cui la guardi. La sua asimmetria è una delle chiavi di lettura più importanti, così come il bilanciamento tra trasparenze e pieni, tra la rigidità del metallo e la morbidezza del cavo che richiama i classici chandelier veneziani. C’è poi un momento magico quando la luce l’attraversa e la trasfigura completamente. La fonte luminosa è costituita da tubi in metacrilato trasparente, fissati ai bracci. La luce a LED scorre al loro interno per fuoriuscire dalle estremità, graffiate e coniche, trasformando elementi eterei in presenze vibranti, come fiammelle sospese nello spazio.
Ne emerge un senso di scoperta, un’esperienza simile a una madeleine proustiana: un oggetto che trasmette un’intima familiarità, pur essendo del tutto inedito.».

 

Parlando di familiarità, a prima vista Allumette sembra dovere molto al 2097 di Sarfatti. Anche se poi il gioco di asimmetrie la allontana da questo archetipo. Hai cercato appositamente questo gioco di citazioni?

«Il lampadario di Sarfatti è stato emblematico e di grande ispirazione per questo progetto. Non tanto nelle forme quanto nella sua capacità di esprimere al meglio il ruolo della tecnologia, rendendola per la prima volta esplicita: le lampadine lasciate nude e crude, la presenza del cavo. Mi affascinava anche la tensione del progetto a conquistare lo spazio intorno a un fulcro centrale.
Da qui in poi, però, per Allumette ho seguito un’ispirazione diversa, costruita sull’idea della fonte luminosa originale, cioè la candela, e la triangolazione di bracci che, avendo geometrie e lunghezze variabili, permettono di disassare il baricentro».

 

Il momento dell’accensione è cruciale, dicevi. Come l’hai progettato?

«Volevo creare una nuvola di luce intorno al tavolo. Per questo la simmetria era cruciale: un oggetto simmetrico avrebbe generato una sfera di luce, mentre io volevo una nuvola luminosa, con una luce calda e naturale. L’idea di base era sfruttare la magia della riflessione in un tubo trasparente, con la luce che viene spinta in alto e poi scende, riflessa. Quindi si diffonde tutto intorno, senza essere puntuale o diretta solo verso il soffitto. Nel momento dell’accensione, ogni elemento trasparente prende vita e tutto l’equilibrio dell’oggetto cambia».

 

Quando capisci che sei arrivata alla soluzione giusta per un progetto?

«Di solito porto avanti tanti progetti contemporaneamente. Arrivo all’incontro col cliente con cinque idee, poi le scremo poco prima della presentazione per scegliere quella che mi convince di più. Mi affido molto al 3D per testare velocemente le idee e alla ricerca storica: per Allumette, ho studiato i primi chandelier come portacandele e ho scomposto ogni elemento per ricostruirlo in chiave contemporanea. È un processo di lateral thinking: unire conoscenze tecniche e suggestioni personali per dare forma a qualcosa di nuovo».

 

Qual è stato il ruolo di Foscarini nello sviluppo del progetto?

«Questo progetto è stata una danza bellissima. I momenti più eccitanti sono quello iniziale, in cui non si sa nulla, e quello in cui si inizia a progettare a più mani. Ci sono state sfide tecniche – di cui io, neofita della luce, non ero al corrente – con un impatto formale che abbiamo dovuto gestire. Foscarini ha lavorato su questi aspetti con estrema cura, bilanciando ingegneria e visione progettuale».

 

Parliamo ora di Tilia

«Con Tilia – che come dicevo nasce dallo studio dei principi matematici e fisici, come la sequenza di Fibonacci o le strutture frattali, in ambiente naturale – ho cercato di creare un sistema luminoso che seguisse quelle logiche: un’illuminazione che non fosse rigida, ma sembrasse espandersi nello spazio con la stessa naturalezza di un organismo vivente. Proporremo due diverse configurazioni, una struttura più compatta e verticale e una più ampia e scenografica, mantenendo sempre un equilibrio tra leggerezza e presenza scenica.
La luce che emana è morbida, calda, avvolgente. I diffusori in vetro borosilicato sabbiato opalino, infatti, creano una luminosità soffusa, quasi eterea, come una nuvola luminosa sospesa nello spazio».

 

Come si toglie l’allure tecnica a un oggetto ispirato da regole della fisica?

«Ho lavorato sulla sensibilità materica. Invece di essere nascosti, i raccordi diventano piccoli elementi gioiello, i diffusori sono in vetro sabbiato ed emettono una luce morbida e avvolgente. Volevo che lo chandelier risultasse una presenza quasi spontanea, come se fosse sempre esistita, ma che allo stesso tempo svelasse, a un’osservazione più attenta, tutta la sua complessità costruttiva. Tilia è un progetto che parla di crescita e adattabilità, portando con sé un senso di leggerezza, meraviglia e armonia naturale».

 

Come si è evoluto il concept?

«Parlando con Matteo Urbinati, design coordinator e direttore marketing di Foscarini (ndr.), è emersa una fascinazione comune per le strutture naturali e le loro regole di crescita. Da lì ho approfondito il tema della ramificazione, studiando come definire una nuova “specie botanica” luminosa, con una logica di sviluppo propria».

 

Dissonanze e asimmetrie sono sempre presenti nel tuo lavoro. Perché sono importanti?

«Viviamo in un mondo di oggetti perfetti, mentre noi esseri umani siamo imperfetti e diversi. Un oggetto asimmetrico può risultare più vicino a noi, più umano. Non tutte le aziende accettano prodotti asimmetrici, perché sono più difficili da gestire a livello produttivo e potrebbero incontrare meno il favore del pubblico. Ma credo che la bellezza risieda in questa imperfezione».

 

Il design oggi dovrebbe avvicinarsi alle persone. Lo si dice da sempre eppure sembra ancora una conquista…

«È vero, il design lo dice da sempre e penso che provi anche da sempre a farlo ma spesso si scontra con esigenze di mercato, tendenze e mode, che portano gli oggetti altrove rispetto ai desiderata dei progettisti. A volte mi trovo addirittura a non dichiarare apertamente le scelte inclusive: ad esempio, potrei alzare un divano di 3 cm senza dirlo all’azienda, sapendo che così sarà più facile per un anziano alzarsi. Il design deve essere sensibile ai corpi e alla realtà».

“Il design è una soluzione dei confitti, quindi accresce”: sono tue parole. È un approccio che si può applicare anche nel quotidiano?

«Il design spinge chi lo pratica a riflettere sulle cose, a costruire su quanto esiste per migliorarlo, a cercare di dare un apporto positivo alle situazioni, a trovare un dialogo tra opposti. Sono qualità che, applicate alla vita di tutti i giorni, possono davvero fare la differenza. Per non parlare dell’altra cosa meravigliosa del design e cioè che ci rende bambini per sempre, aprendoci gli occhi e insegnandoci a cogliere la meraviglia intorno a noi. E se non è questa la chiave per stare bene non so cos’altro potrebbe esserlo».

Luce che non è solo funzione, ma presenza, carattere, espressione.

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