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Mattia Cimadoro e Giuseppe Mauro guidano ora Dordoni Studio, la loro prima sfida in questa nuova fase è stata, nel campo dell’illuminazione, la progettazione di Etoile: un progetto in cui rivivono la leggerezza eterea e la sobria ma decisa eleganza che hanno sempre caratterizzato le creazioni del maestro, unite a una luce d’atmosfera discreta e sofisticata.

Vi eravate mai cimentati nella progettazione di uno chandelier?

«Mai. E un po’ di timore c’era nell’affrontare una sfida del genere, perché lo chandelier non è un tema semplice. Una lampada da tavolo può avere una presenza più discreta e circoscritta, mentre uno chandelier è quasi sempre il protagonista dello spazio. La sfida era grande, ma proprio per questo anche stimolante».

Come l’avete affrontata?

«Abbiamo scelto di proseguire il percorso intrapreso con Foscarini negli ultimi anni, con lampade come Fleur e Chapeau, lavorando sulla trasparenza e sulla leggerezza ed eliminando il superfluo. La nostra prima sfida è stata capire se fosse possibile trasferire quelle intuizioni su una lampada così importante.
Noi cerchiamo sempre di portare avanti un pensiero, una visione della luce e del design nel solco degli insegnamenti di Rodolfo. Non potevamo che partire da lì e cercare di ottenere uno chandelier etereo, una presenza che galleggia nello spazio e diffonde la luce con morbidezza, dal carattere discreto e trasversale».

Come è nata ETOILE?

«Siamo partiti dal classico lampadario muranese, in cui il vetro è l’elemento decorativo principale e la struttura si organizza a raggiera attorno a uno stelo.
Abbiamo lavorato per sottrazione: prima eliminando lo scheletro centrale, poi i bracci che sorreggono i punti luce. Infine, pur mantenendo il vetro come materiale fondamentale, abbiamo eliminato qualsiasi decorazione superflua.
L’obiettivo era preservare la ricchezza insita in questa tipologia di lampada, ma esprimendola in un linguaggio più contemporaneo, costruendo il progetto non attraverso la decorazione, ma il gioco dei volumi».

 

Come si elimina il corpo centrale mantenendo però l’effetto chandelier?

«Il vuoto centrale di ETOILE è, in realtà, apparente. Al suo interno si cela un cilindro di Pyrex trasparente quasi impercettibile, che funge da struttura portante dell’intera composizione. Da questo nucleo si diramano piccoli cilindri che sostengono i moduli illuminanti – lampadine accolte in diffusori in vetro semicilindrico – disposti su tre livelli nella versione Grande, e unico nella Ronde.
Il cilindro accoglie anche i cavi elettrici a vista, lasciati liberi di muoversi, quasi a reinterpretare il decoro dei bracci in una forma estremamente stilizzata e minimale.
Nelle lampade muranesi tradizionali, l’elemento centrale è il fulcro decorativo, impreziosito da steli, catene e dettagli ornamentali. Qui, invece, lo sguardo incontra un vuoto essenziale, attraversato solo dai cavi che distribuiscono l’elettricità a ogni punto luminoso, trasformando l’assenza in una presenza sottile e dinamica».

 

Come avete costruito i moduli illuminanti?

«L’intero progetto ruota attorno alla figura del cilindro. Il modulo illuminante è composto da una lampadina e un diffusore in vetro soffiato a sezione cilindrica.
Nella Grande Etoile le porzioni di vetro variano nei diversi livelli: nei piani superiore e inferiore corrispondono a due terzi di un cilindro, mentre al livello intermedio – che definisce anche il profilo più esterno del volume – assumono la forma di mezze circonferenze, le medesime che compongono la Etoile Ronde.
Il vetro utilizzato per il diffusore è acidato, privo di decorazioni o lavorazioni particolari, e si distingue esclusivamente per la sua essenziale geometria».

In che modo ETOILE rimane legato alla tradizione?

«L’estetica complessiva è rigorosa e industriale nel disegno, ma con un richiamo sottile alla tradizione. Il vetro acidato del diffusore evoca l’artigianalità muranese, mantenendo un filo conduttore con le lampade che abbiamo sempre progettato per Foscarini.
L’impatto visivo del lampadario non deriva dal decoro – che è volutamente assente – ma dalla sua composizione: un equilibrio di pieni e vuoti che, pur utilizzando un linguaggio contemporaneo, richiama l’immaginario dello chandelier».,

 

Come è cambiata ETOILE nel passaggio dal concept al prodotto?

«L’idea iniziale era creare una struttura di vetro completamente autosostenuta. Tuttavia, le peculiarità del vetro soffiato ci hanno indirizzati, insieme a Foscarini – il cui contributo è stato fondamentale nello sviluppo del progetto – verso l’utilizzo di un cilindro centrale in Pyrex, un vetro industriale, più resistente e strutturalmente affidabile, che funge da elemento di sostegno.
Questa scelta è anche un fil rouge con le più recenti lampade disegnate per l’Azienda: Chapeau ha uno stelo in Pyrex, e Fleur utilizza lo stesso materiale».

 

Quindi ETOILE è realizzata con due tipologie di vetro diverse?

«Esatto. Il Pyrex, scelto per la struttura portante, mentre per i diffusori abbiamo optato per il vetro soffiato, apprezzato per la sua qualità estetica.
L’acidatura conferisce una texture setosa e permette alla luce di diffondersi in modo morbido e discreto, creando un’atmosfera rarefatta».

 

Che tipo di luce offre ETOILE?

«Non si tratta di una luce diretta o invasiva. Le lampadine consigliate hanno una finitura argentata sul fronte, una scelta che ha una doppia funzione: da un lato, garantisce un’estetica coerente con la lampada, dall’altro, orienta la luce verso il vetro, permettendo al diffusore di assorbirla e redistribuirla in modo armonioso e avvolgente.
Il vetro non è quindi solo un elemento di schermatura, ma diventa il vero protagonista, come se generasse la luce invece di limitarsi a diffonderla.

 

C’è più Venezia o più Milano in ETOILE?

«Il punto di partenza è sicuramente veneziano. Ma il disegno a cui siamo arrivati, profondamente studiato, si ispira senza dubbio all’eleganza essenziale della Milano della metà del secolo scorso.»

Luce che non è solo funzione, ma presenza, carattere, espressione.

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Dopo l’interpretazione del luminator che ha dato vita a Chiaroscura, Alberto e Francesco Meda tornano a reinterpretare un classico della luce per Foscarini, lo chandelier.

Dopo l’interpretazione della storica Luminator disegnata da Pietro Chiesa nel 1933, che ha dato vita a Chiaroscura, Alberto e Francesco Meda tornano a reinterpretare un classico della luce per Foscarini, lo chandelier. Lo fanno lavorando, ancora una volta, con estrusi di alluminio e integrando l’elemento luminoso all’interno del corpo stesso della lampada, concedendosi anche un divertissement decorativo ottenuto impeccabilmente grazie al gioco di incastri tra la fonte luminosa e il sostegno.

Perché, secondo voi, Foscarini vi ha chiesto di collaborare a questo progetto?

«Sicuramente Foscarini cercava una pluralità di mani e sguardi da impegnare sul tema della sperimentazione intorno al tema dello chandelier. Rispetto agli altri designer ingaggiati (Francesca Lanzavecchia e Dordoni Studio, ndr), la nostra forza penso sia insita nella ricerca di innovazione a partire dal dialogo tra materiali e tecnologie, interpretando in chiave contemporanea la tradizione senza stravolgerla nella sua essenza».

 

Da progettisti, qual era l’interesse in questo progetto?

«Ci piace lavorare su tipologie rimaste immutate nel tempo. Lo abbiamo fatto con Chiaroscura, e lo stesso vale per lo chandelier, un oggetto studiato e reinterpretato infinite volte, ma sempre con un approccio basato sul decoro e sulla molteplicità delle fonti luminose. Noi, invece, abbiamo scelto di affrontare la sfida da una prospettiva opposta».

 

Quale?

«Siamo partiti chiedendoci cioè dove ci avrebbe portati la tecnologia per l’illuminazione contemporanea, cioè i LED che offrono nuove opportunità che permettono di lavorare sulla qualità della luce e sulla sua distribuzione. Ci siamo chiesti, all’interno della tipologia del lampadario importante e centro stanza quale fosse la forma più essenziale che i LED permettevano di ottenere. Ne è uscita l’idea del braccio, con una striscia di LED, che è stato il punto di partenza del progetto».

Qual è la chiave di lettura per cogliere la portata innovativa di ASTERIA?

«La forza progettuale di ASTERIA sta nell’integrazione intima tra struttura e luce.
Come accennato, alla base del progetto c’è il braccio, un estruso di alluminio con una sezione a V, caratterizzato da un lato corto verticale e uno lungo che si estende orizzontalmente, curvandosi. La luce viene emessa da una striscia LED incassata nella parte superiore del braccio e coperta da una pellicola trasparente, che straborda in modo impercettibile sui lati e permette alla luce di fuoriuscire leggermente. Questo dettaglio rende la fonte luminosa percepibile anche a chi osserva il braccio dal basso o lateralmente.
Il braccio, che funge sia da struttura che da diffusore, è collegato a un cilindro centrale verticale. Sei braccia formano un livello dello chandelier, con un massimo di tre livelli sovrapposti in modo sfasato.
Quando acceso, ASTERIA emette luce in più direzioni: verso l’alto, in modo radiale grazie alla sovrapposizione dei livelli, e con una sottile linea luminosa quasi grafica dove il LED fuoriesce leggermente da ogni singolo braccio. Inoltre, se posizionato sopra un tavolo, fornisce anche luce diretta, grazie a un’ulteriore fonte luminosa posta nella parte inferiore del cilindro centrale».

 

Raccontato così sembra un lampadario modulare. È così?

«Sì, ogni livello può esistere indipendentemente come lampada a sospensione. La modularità quindi c’è anche se, per mantenere una certa coerenza progettuale, le diverse configurazioni saranno proposte dall’azienda, nell’offerta di una certa varietà estetica e funzionale».

Come siete arrivati a una ridefinizione così essenziale del lampadario?
«Cercavamo un’evoluzione del concetto. Abbiamo lavorato sul braccio come elemento centrale, integrando la luce nella struttura. Inizialmente volevamo creare una struttura più rigida e lineare, ma ci siamo resi conto che risultava troppo fredda. Abbiamo quindi introdotto curvature e una disposizione più dinamica dei bracci per rendere il progetto più armonioso e contemporaneo».

 

Nello sviluppo del progetto, insieme a Foscarini, c’è stata un’evoluzione significativa rispetto al concept iniziale?

«Sì, soprattutto nell’idea di “spettinare” la composizione per evitare un’estetica troppo rigida. Questo è stato un contributo dell’azienda, che ha voluto dare maggiore dinamismo all’oggetto».

 

Come si capisce quando un progetto ha trovato il giusto equilibrio tra rigore e morbidezza?

«È un processo di affinamento continuo. All’inizio c’è sempre un rischio, ma man mano che si ricevono feedback dalla sperimentazione, si inizia a percepire se la soluzione funziona. Per questo l’affinità tra designer e azienda è così importante».

 

Cosa definisce la contemporaneità oggi?

«Vuol dire fare cose semplici – cioè risolte – dal punto di vista costruttivo e in cui le tecniche o le tecnologie che sono state utilizzate per ottenere quel risultato non sono esibite. Significa creare quindi oggetti meno connotati che, proprio per questo, possono durare di più nel tempo perché non soggetti alle mode».

 

Le mode però ci sono. È un problema?

«Sì, il rischio è un’omologazione eccessiva. Decenni fa l’elemento distintivo delle imprese italiane era la capacità di evolvere, mettere a punto pezzetti di conoscenza che poi altri ereditavano e portavano avanti. Oggi questa cosa è rarissima e la conseguenza è che quello che viene presentato alle fiere come novità è tutto molto uguale: quando qualcosa funziona commercialmente diventa subito un template da ripetere con o senza varianti. Lo stesso accade con i classici, riproposti all’infinito perché sono sicuri e commercialmente efficaci».

 

La mancanza di innovazione e il passatismo è un problema solo per gli appassionati di design?

«Noi pensiamo che diventerà un problema per le aziende. Soprattutto quelle piccole o giovani – che non hanno un heritage a cui attingere e copiano le forme e il flair dei classici invece di inventare qualcosa di personale e significativo. Quando il mercato sarà saturo, avranno un problema».

 

Alberto, hai detto che il design aggiunge un pezzo di conoscenza al preesistente. Come si fa a perseguire questo obiettivo?

«Bisogna essere curiosi degli sviluppi scientifici e tecnologici, senza cadere nella celebrazione della tecnologia fine a se stessa. Il design deve saper cogliere il valore innovativo della tecnologia e trasformarlo in un vantaggio funzionale ed estetico. Per esempio, tornando al tema dei classici rivisitati, è un esercizio che ha senso se si aggiunge al progetto originale quello che viene dalla ricerca in materiali più sostenibili, un settore in cui vedo che – effettivamente – molte aziende sono impegnate».

 

Cosa vedete nel futuro dell’illuminazione?

«Gli OLED potrebbero rappresentare una vera rivoluzione. Si tratta di sorgenti luminose puntiformi che, sebbene ancora relativamente costose, offrono grandi possibilità per i designer grazie alla loro capacità di emettere luce da una superficie piatta. Questa superficie può persino essere flessibile, simile a un tessuto, aprendo scenari inediti e variegati che meritano senza dubbio di essere esplorati».

Luce che non è solo funzione, ma presenza, carattere, espressione.

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Francesca Lanzavecchia sa esattamente cosa vuole: progettare oggetti che non lasciano indifferenti. Non si tratta solo di estetica, ma di quell’intensa risonanza emotiva che i suoi progetti devono saper evocare.

Per lei, il design è innanzitutto risoluzione di conflitti, un concetto che racchiude più sfumature. Significa creare oggetti di affezione, ideare soluzioni che favoriscano un rapporto empatico tra le persone e le cose, affinché queste vengano curate e valorizzate nel tempo. Significa rispettare la diversità dei corpi, inserire sottili dissonanze visive che generano connessione emotiva e trasformare gli oggetti in metafore, invitando a guardare oltre l’apparenza.
Tutti questi principi trovano espressione in Allumette e Tilia, i due chandelier che ha progettato per Foscarini.

Cosa pensi che cercasse Foscarini chiedendoti di collaborare a questo progetto?

«Con Foscarini ci siamo avvicinati in occasione del Salone del Mobile e l’interesse è stato immediato e reciproco. Da parte loro, credo volessero capire come il mio approccio – la costante ricerca di stupore e meraviglia nel quotidiano – potesse dialogare con il loro linguaggio. Da parte mia, mi ha sempre affascinato la loro visione del design, non come mera industria, ma come una fabbrica di sogni, capace di comunicare umanità attraverso i progetti, sempre arricchiti da una sottile sfumatura surreale.
Dentro questa complessità ho colto l’opportunità di esplorare nuovi modi di interpretare la luce e di lavorare a un progetto che non fosse fine a se stesso. Non a caso, già dal primo briefing, la dualità tra leggerezza e presenza, ordine e disordine, è emersa come un tema chiave».

 

È raro, per una designer oggi, trovare questo genere di visione?

«A livello di storytelling, questa visione sembra condivisa da molti, ma è raro trovare un’azienda che la applichi in modo autentico e sistematico dall’interno – non solo come strategia di comunicazione, ma come principio fondante del progetto, fin dalla sua origine.
Oggi c’è un forte bisogno di leggerezza e di nuove narrazioni, ma senza un approccio genuino e strutturato, come quello di Foscarini, queste tensioni difficilmente si trasformano in progetti concreti che arrivano sul mercato. Più spesso, vediamo prodotti guidati dalle esigenze del marketing, a cui vengono sovrapposte narrazioni di esplorazione che, in realtà, non è mai avvenuta».

 

I due chandelier a confronto…

«In comune hanno il fatto di non essere prodotti singoli. Entrambi sono centro-stanza importanti ma abitano lo spazio con leggerezza, trovando un equilibrio sottile tra tecnologia, espressione e poesia. Infine sia Allumette che Tilia sono stati pensati per fare luce in modo evocativo e trasformare ogni ambiente in un luogo più intimo, vivo e vibrante».

 

Dal punto di vista del punto di partenza del progetto, però, sono due sistemi molto diversi.

«Allumette è costruito sul bilanciamento tra opposti – pieni e vuoti, presenze e trasparenze: l’ho progettato seguendo un approccio “ingegneristico” che esalta struttura, tensione geometrica e asimmetrie. Mentre Tilia si ispira alla crescita spontanea e alla fluidità delle forme naturali ed è una rappresentazione plastica delle invisibili regole che portano le strutture naturali a crescere nello spazio: i delta dei fiumi, le venature delle foglie, le formazioni coralline».

 

Perché hai seguito due direzioni così diverse?
«Indago sempre più strade. Mi piace coinvolgere scienza, tecnologia e fisica senza rinunciare a creare oggetti familiari, intuitivi, quasi delle epifanie visive e tattili.
Con Allumette, il punto di partenza era la scomposizione di uno chandelier nelle sue parti essenziali: ho lavorato su elementi tecnologici, triangolazioni, equilibri irregolari, cercando di trasformare un oggetto complesso in una struttura che giocasse con il contrasto tra tensione e leggerezza.
Con Tilia, invece, ho voluto esplorare un’idea di crescita più organica, ispirata ai processi naturali: ramificazioni, geometrie frattali, strutture reticolari. Ho cercato di codificarle e trasformarle in un sistema di luce che potesse espandersi nello spazio come un albero allunga i suoi rami verso il sole».

Vediamoli uno per uno. Qual è l’essenza di Allumette?

«È una famiglia di chandelier piuttosto che un singolo oggetto, costellazioni centro-stanza che bilanciano opposti: leggerezza e presenza, geometrie rigide e linee morbide. Allumette è stata pensata come una coreografia, una presenza che cambia a seconda dell’angolo da cui la guardi. La sua asimmetria è una delle chiavi di lettura più importanti, così come il bilanciamento tra trasparenze e pieni, tra la rigidità del metallo e la morbidezza del cavo che richiama i classici chandelier veneziani. C’è poi un momento magico quando la luce l’attraversa e la trasfigura completamente. La fonte luminosa è costituita da tubi in metacrilato trasparente, fissati ai bracci. La luce a LED scorre al loro interno per fuoriuscire dalle estremità, graffiate e coniche, trasformando elementi eterei in presenze vibranti, come fiammelle sospese nello spazio.
Ne emerge un senso di scoperta, un’esperienza simile a una madeleine proustiana: un oggetto che trasmette un’intima familiarità, pur essendo del tutto inedito.».

 

Parlando di familiarità, a prima vista Allumette sembra dovere molto al 2097 di Sarfatti. Anche se poi il gioco di asimmetrie la allontana da questo archetipo. Hai cercato appositamente questo gioco di citazioni?

«Il lampadario di Sarfatti è stato emblematico e di grande ispirazione per questo progetto. Non tanto nelle forme quanto nella sua capacità di esprimere al meglio il ruolo della tecnologia, rendendola per la prima volta esplicita: le lampadine lasciate nude e crude, la presenza del cavo. Mi affascinava anche la tensione del progetto a conquistare lo spazio intorno a un fulcro centrale.
Da qui in poi, però, per Allumette ho seguito un’ispirazione diversa, costruita sull’idea della fonte luminosa originale, cioè la candela, e la triangolazione di bracci che, avendo geometrie e lunghezze variabili, permettono di disassare il baricentro».

 

Il momento dell’accensione è cruciale, dicevi. Come l’hai progettato?

«Volevo creare una nuvola di luce intorno al tavolo. Per questo la simmetria era cruciale: un oggetto simmetrico avrebbe generato una sfera di luce, mentre io volevo una nuvola luminosa, con una luce calda e naturale. L’idea di base era sfruttare la magia della riflessione in un tubo trasparente, con la luce che viene spinta in alto e poi scende, riflessa. Quindi si diffonde tutto intorno, senza essere puntuale o diretta solo verso il soffitto. Nel momento dell’accensione, ogni elemento trasparente prende vita e tutto l’equilibrio dell’oggetto cambia».

 

Quando capisci che sei arrivata alla soluzione giusta per un progetto?

«Di solito porto avanti tanti progetti contemporaneamente. Arrivo all’incontro col cliente con cinque idee, poi le scremo poco prima della presentazione per scegliere quella che mi convince di più. Mi affido molto al 3D per testare velocemente le idee e alla ricerca storica: per Allumette, ho studiato i primi chandelier come portacandele e ho scomposto ogni elemento per ricostruirlo in chiave contemporanea. È un processo di lateral thinking: unire conoscenze tecniche e suggestioni personali per dare forma a qualcosa di nuovo».

 

Qual è stato il ruolo di Foscarini nello sviluppo del progetto?

«Questo progetto è stata una danza bellissima. I momenti più eccitanti sono quello iniziale, in cui non si sa nulla, e quello in cui si inizia a progettare a più mani. Ci sono state sfide tecniche – di cui io, neofita della luce, non ero al corrente – con un impatto formale che abbiamo dovuto gestire. Foscarini ha lavorato su questi aspetti con estrema cura, bilanciando ingegneria e visione progettuale».

 

Parliamo ora di Tilia

«Con Tilia – che come dicevo nasce dallo studio dei principi matematici e fisici, come la sequenza di Fibonacci o le strutture frattali, in ambiente naturale – ho cercato di creare un sistema luminoso che seguisse quelle logiche: un’illuminazione che non fosse rigida, ma sembrasse espandersi nello spazio con la stessa naturalezza di un organismo vivente. Proporremo due diverse configurazioni, una struttura più compatta e verticale e una più ampia e scenografica, mantenendo sempre un equilibrio tra leggerezza e presenza scenica.
La luce che emana è morbida, calda, avvolgente. I diffusori in vetro borosilicato sabbiato opalino, infatti, creano una luminosità soffusa, quasi eterea, come una nuvola luminosa sospesa nello spazio».

 

Come si toglie l’allure tecnica a un oggetto ispirato da regole della fisica?

«Ho lavorato sulla sensibilità materica. Invece di essere nascosti, i raccordi diventano piccoli elementi gioiello, i diffusori sono in vetro sabbiato ed emettono una luce morbida e avvolgente. Volevo che lo chandelier risultasse una presenza quasi spontanea, come se fosse sempre esistita, ma che allo stesso tempo svelasse, a un’osservazione più attenta, tutta la sua complessità costruttiva. Tilia è un progetto che parla di crescita e adattabilità, portando con sé un senso di leggerezza, meraviglia e armonia naturale».

 

Come si è evoluto il concept?

«Parlando con Matteo Urbinati, design coordinator e direttore marketing di Foscarini (ndr.), è emersa una fascinazione comune per le strutture naturali e le loro regole di crescita. Da lì ho approfondito il tema della ramificazione, studiando come definire una nuova “specie botanica” luminosa, con una logica di sviluppo propria».

 

Dissonanze e asimmetrie sono sempre presenti nel tuo lavoro. Perché sono importanti?

«Viviamo in un mondo di oggetti perfetti, mentre noi esseri umani siamo imperfetti e diversi. Un oggetto asimmetrico può risultare più vicino a noi, più umano. Non tutte le aziende accettano prodotti asimmetrici, perché sono più difficili da gestire a livello produttivo e potrebbero incontrare meno il favore del pubblico. Ma credo che la bellezza risieda in questa imperfezione».

 

Il design oggi dovrebbe avvicinarsi alle persone. Lo si dice da sempre eppure sembra ancora una conquista…

«È vero, il design lo dice da sempre e penso che provi anche da sempre a farlo ma spesso si scontra con esigenze di mercato, tendenze e mode, che portano gli oggetti altrove rispetto ai desiderata dei progettisti. A volte mi trovo addirittura a non dichiarare apertamente le scelte inclusive: ad esempio, potrei alzare un divano di 3 cm senza dirlo all’azienda, sapendo che così sarà più facile per un anziano alzarsi. Il design deve essere sensibile ai corpi e alla realtà».

“Il design è una soluzione dei confitti, quindi accresce”: sono tue parole. È un approccio che si può applicare anche nel quotidiano?

«Il design spinge chi lo pratica a riflettere sulle cose, a costruire su quanto esiste per migliorarlo, a cercare di dare un apporto positivo alle situazioni, a trovare un dialogo tra opposti. Sono qualità che, applicate alla vita di tutti i giorni, possono davvero fare la differenza. Per non parlare dell’altra cosa meravigliosa del design e cioè che ci rende bambini per sempre, aprendoci gli occhi e insegnandoci a cogliere la meraviglia intorno a noi. E se non è questa la chiave per stare bene non so cos’altro potrebbe esserlo».

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Ery Burns porta la libera spontaneità dei doodle nel progetto What’s in a Lamp? di Foscarini. In ogni disegno la luce diventa espressione immediata e immaginifica, dando vita a storie inaspettate, ricche di dettagli, colori vivaci e un tocco di umorismo.

Scopri di più su “What’s in a lamp?”

Ery Burns è un’artista e illustratrice britannica con uno stile immediatamente riconoscibile, fatto di segni spontanei, colori accesi e dettagli intricati. Dice di aver ereditato il suo doodle gene dalla sua trisavola, un’artista indiana cresciuta ai piedi dell’Himalaya. Il suo segno nasce dall’intuito e prende forma direttamente sul foglio, senza schemi prestabiliti, in un flusso che intreccia forme organiche, motivi ripetitivi e un pizzico di ironia. Il risultato è un universo visivo che oscilla tra immaginazione e realtà, capace di evocare quello stupore quasi infantile che si tende a perdere crescendo.

Per il progetto What’s in a Lamp? di Foscarini, Ery Burns ha reinterpretato le lampade del brand attraverso la lente della sua immaginazione, esplorando l’essenza emotiva della luce. Ha visto volti, creature, mondi da esplorare e li ha fatti emergere con il suo tratto, lasciandosi guidare dalle forme e dai volumi, trasformando ogni lampada in un racconto visivo tra natura e fantasia dal tratto giocoso e ipnotico, capace di catturare lo sguardo.

Buds ha preso le sembianze di un personaggio curioso e interrogativo, Gregg è diventata un uovo appena deposto, accudito da una creatura ibrida tra pipistrello e gatto, Twiggy gioca, ironica e sbarazzina, in un contesto di arcobaleni e motivi che ricordano gli anni ’60.

“Ho pensato a cosa mi trasmettono le lampade di Foscarini, ed è stata immediata quella sensazione di conforto che si prova quando si trova una luce nel buio. Quando le guardo, vedo più di un oggetto che illumina. Vedo mondi da esplorare, storie da raccontare, creature che abitano le loro forme. È come se ogni lampada avesse una personalità propria, pronta a raccontare la sua storia”

Ery Burns
/ Doodle Artist

In questa intervista, abbiamo parlato con Ery Burns del suo approccio spontaneo al disegno e di come ha reinterpretato le lampade Foscarini con il suo tratto inconfondibile. Scopri l’intera serie What’s in a Lamp? su Instagram.

Puoi raccontarci il percorso che ti ha portata a diventare illustratrice? Ci sono stati momenti decisivi che hanno segnato il tuo cammino?
Spesso rispondo sempre allo stesso modo a questa domanda, perché ci sono tantissimi motivi positivi per cui amo disegnare, e cerco sempre di sembrare una persona normale! Ma la verità è che sono cresciuta in una famiglia numerosa, e questo non significa necessariamente che non ci si possa sentire soli o poco visti. Ero la più piccola di cinque fratelli, quindi ero sempre circondata da persone, personalità e influenzata dai più grandi. Mio padre era avvocato (e un gran lavoratore), quindi non aveva molto tempo per noi.
Ricordo che i miei pastelli erano una sorta di rifugio: potevo creare mondi e dare spazio alla mia immaginazione. Disegnare era come ossigeno, mi aiutava a trovare un equilibrio. Ogni volta che mi sentivo sopraffatta, mi rifugiavo nei miei doodle. Quindi sì, il momento decisivo è stato proprio la fuga dalla realtà! Disegnavo ogni volta che volevo spegnere il mondo intorno a me, il che purtroppo includeva gran parte della scuola… Sono terribile in matematica!

 

I tuoi doodle sono vivaci, pieni di dettagli, pattern e colori decisi. Come hai sviluppato questo stile così riconoscibile? Quali influenze hanno contribuito alla sua evoluzione?
Ho sempre saputo, in qualche modo, di avere un mio modo particolare di interpretare il mondo. Era un processo inconscio, ma da bambina passavo periodi in cui mi lasciavo ispirare da artisti o animazioni che incontravo lungo il cammino.
Sono cresciuta guardando i film di Terry Gilliam e Monty Python, e negli anni ’90 c’erano Keith Haring e Basquiat ovunque. Credo che mi abbiano influenzata più di quanto mi renda conto. Mi piaceva molto anche Kandinsky, che condivideva con me l’amore per i dettagli e le linee decise.
Forse ha influito anche il fatto di essere stata circondata da musica iconica e dalle copertine dei vinili—mio padre aveva una collezione incredibile: The Rolling Stones, Led Zeppelin, Bob Dylan, The Beatles, Cream.
Di recente ho scoperto, grazie a un test del DNA, di avere origini indiane e kazake per il 4%, entrambe culture incredibilmente ricche e colorate. Mi piace immaginare che questa eredità sia qualcosa che porto dentro di me e che in qualche modo influenzi i miei doodle e il mio modo di fare arte.

 

Il doodling è spesso associato alla spontaneità e all’intuizione. Quanto del tuo processo creativo è istintivo e quanto è il risultato di una visione compositiva che hai chiara fin dall’inizio?
Dipende dal progetto, ma di solito i primi schizzi sono completamente spontanei, un’esplosione di idee! Per Foscarini, avevo un’intuizione su come volevo che apparisse il lavoro finito, ma era più una sensazione che un’immagine chiara. Non riuscivo a vederlo ancora, ma lo sentivo e sapevo che avrebbe preso forma sulla carta.

Come capisci quando un’opera è “finita”? C’è un momento in cui senti di aver raggiunto il massimo potenziale del pezzo?
Lo percepisci dal bilanciamento dell’illustrazione—se gli elementi dialogano bene tra loro, se il flusso è armonioso o se qualcosa è fuori posto. Anche la scelta della palette di colori può fare o distruggere un’opera. Ho dovuto buttare via un pezzo che avevo fatto per Foscarini perché sembrava un brutto Jurassic Park! Semplicemente: quando è giusto lo percepisci.

 

Puoi raccontarci il tuo processo creativo quando sviluppi un pattern?
Ci provo! Faccio tantissimi schizzi e ricerche su Google, specialmente se devo disegnare qualcosa in modo più realistico. Per progetti come il packaging o l’artwork per le lattine di birra, l’illustrazione deve catturare subito l’attenzione—quindi, più strano è, meglio è! In questi casi posso lasciare fluire la mia immaginazione in modo più naturale. Uso molti dettagli casuali nelle linee per intrecciare insieme le immagini.

 

Ci sono elementi o temi ricorrenti che emergono naturalmente nei tuoi disegni?
Bella domanda. Il mio processo è molto istintivo, quindi non sempre facile da spiegare. Di solito inizio con una forma casuale e da lì si sviluppa in modo organico, come se crescesse da un piccolo “seme di Ery”.
Penso che gli occhi e le mani tornino spesso nei miei disegni, forse perché danno un senso di presenza e connessione. Forse immagino che le figure si rattristerebbero se non potessero vedere o toccare. Credo di attingere a elementi della natura, dell’evoluzione e a un pizzico di umorismo.

 

Il colore è un elemento fondamentale nel tuo lavoro. Come scegli le palette cromatiche?
Il colore è essenziale e può determinare l’atmosfera di un’opera. Come per il mio stile, anche la mia scelta di colori è piuttosto intuitiva e istintiva.
Dipende molto dal progetto: se è commerciale o personale. Nei miei lavori più intimi tendo a usare colori più scuri, con tonalità terrose ispirate alla natura. Per le illustrazioni per bambini, probabilmente sceglierei palette più audaci e luminose.

 

Per “What’s in a Lamp?” di Foscarini, come hai sviluppato le illustrazioni? Ci sono aspetti specifici delle lampade che hanno ispirato la tua visione?
Per prima cosa, ho pensato a cosa a cosa mi trasmettono le lampade di Foscarini, ed è stata immediata quella sensazione di conforto che si prova quando si trova una luce nel buio.
Guardando le loro forme e materiali, ho visto volti, un uovo, uova di rana, acqua. Così ho cercato di intrecciare tutti questi elementi e trasformarli in un’opera d’arte che riflettesse le diverse personalità delle lampade.

 

Molti tuoi lavori sono ironici, giocosi e risultano quasi ipnotici nel loro spingere l’osservatore a guardarli più da vicino. Vedi la tua arte come una forma di narrazione?
Ho immaginato le lampade come piccoli mondi abitati da creature che interagiscono con le loro forme in modi inaspettati.
Mi piaceva l’idea che chi guarda i miei disegni avesse la sensazione di essersi appena svegliato, chiedendosi se stesse sognando o fosse ancora mezzo addormentato. Buds, per esempio, ha finito per assumere un’aria curiosa che mi affascina.
Gregg, invece, l’ho vista come un uovo appena deposto, accudito da un gatto-pipistrello che porta con sé una lumaca. E Twiggy è la mia preferita: ha un’anima anni ‘60, un tocco spaziale e un sacco di arcobaleni. E poi, fa addirittura una linguaccia da monella—che lampada sfacciata!

 

Questo progetto per Foscarini ha presentato sfide o opportunità particolari?
La sfida più grande è stata l’assenza di un vero e proprio brief. Avevo totale libertà creativa, il che è fantastico, ma ti porta anche a mettere continuamente in discussione le tue scelte.

 

Come trovi ispirazione e continui a far evolvere il tuo lavoro?
Mi aiuta mantenere corpo e mente in equilibrio: ascoltare musica, correre nei boschi o ballare come una pazza nel mio club preferito. E non lasciarmi troppo influenzare dai social media—seguire il mio ritmo, anche nei momenti più difficili.

 

Cosa significa per te la creatività?
Essere tutto e niente—come un granello di sabbia nell’universo.

Scopri di più sulla collaborazione con Ery Burns e la serie completa sul canale Instagram @foscarinilamps, ed esplora tutte le opere del progetto What’s in a Lamp?, dove artisti internazionali sono chiamati a interpretare la luce e le lampade Foscarini.

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Nelle illustrazioni di Mattia Riami per il progetto editoriale “What’s in a lamp?” le lampade Foscarini si trasformano in elementi magici che con un tocco di surrealismo e fantasia sovvertono la prospettiva, portando stupore e meraviglia nella vita di tutti i giorni.

Scopri di più su “What’s in a lamp?”

Fin da bambino, Mattia Riami ha mostrato un’innata passione per il disegno e le arti figurative, perfezionando la sua tecnica durante gli studi alla Scuola d’Arte di Venezia e allo IED di Milano. Le sue opere si distinguono per un tratto “veloce, nichilista e nervoso”, accompagnato da un uso raffinato del colore che evoca le palette calde e nostalgiche delle pubblicità vintage degli anni quaranta e cinquanta.

Nella sua serie per il progetto editoriale di Foscarini “What’s in a lamp?” – in cui artisti, designer e creativi sono chiamati a interpretare la luce attraverso le lampade Foscarini – Mattia Riami esplora la vita quotidiana attraverso sei illustrazioni che raccontano scene di ordinaria familiarità. C’è sempre, però, un dettaglio inaspettato che ribalta la prospettiva: le lampade Foscarini si trasformano in altro – nuvole, astronavi, trombe – e diventano l’elemento di svolta che rende l’ordinario straordinario, creando un’atmosfera di libertà e spensieratezza che invita a riscoprire il mondo con occhi nuovi.

“Volevo trasmettere un senso di quotidianità e trasformare, attraverso il gioco, le lampade in oggetti diversi da ciò che sono. Mi sono lasciato ispirare dalle loro forme e ho cercato di tornare bambino! Ci ho visto delle nuvole, un’astronave, una tromba, una mazza da baseball e molto altro ancora, avrei potuto continuare questo gioco all’infinito.”

Mattia Riami
/ Artista

Visioni familiari e oniriche allo stesso tempo, che rivelano in modo inaspettato e originale il potere trasformativo delle lampade Foscarini. Oggetti che vanno oltre la semplice funzione, raccontano storie di vita e interpretano desideri ed emozioni, trasformando ogni spazio in un ambiente che riflette la personalità di chi le sceglie.

Scopri la serie completa di Mattia Riami per “What’s in a lamp?” su Instagram @foscarinilamps e approfondisci la sua visione artistica nella nostra intervista.

Com’è iniziata la tua avventura artistica? Hai sempre saputo che l’arte sarebbe stata il tuo percorso?

Sì, sono stato molto fortunato in questo; ho sempre disegnato, fin da bambino. Disegnavo senza sapere che sarebbe diventato il mio lavoro, il mio modo di stare al mondo ed esprimermi, semplicemente disegnavo. Disegnavo i personaggi della Disney, copiavo le figure dei libri illustrati e realizzavo i miei prototipi di libri, pinzando con la graffettatrice una decina di fogli A4 bianchi in cui avevo impostato la mia storia. Più crescevo, più prendevo consapevolezza che potesse diventare una cosa seria, e così ho dedicato i miei studi alle arti visive, trasformando quei giochi nel mio lavoro.

 

Cosa ti motiva a creare e da dove nasce la tua ispirazione: dalla curiosità, dalla ricerca di significato o dall’espressione visiva pura?

Devo dire che l’espressione visiva pura mi attira e condiziona moltissimo. Nella vita di tutti i giorni sono catturato da molti stimoli visivi; disegni, illustrazioni, quadri o manifesti e chi più ne ha più ne metta, e ciò influisce sul desiderio di disegnare semplicemente per esprimere delle forme e colori che nascono dentro di me. In fase progettuale, però, tutte queste forme prendono significato e mi piace quindi costruire una storia alla base di ogni progetto, come ho fatto per “What’s in a Lamp?”.

 

Il tuo tratto grafico è riconoscibile e distintivo. Come descriveresti il tuo stile e come si è evoluto nel tempo?

Lo descriverei con alcune delle parole di altri in cui mi ritrovo molto e che lo hanno descritto per me: “Un segno veloce, nichilista e nervoso.” Confermo, ho sempre un rapporto molto fisico con il mio lavoro, che sia su carta o con pennelli digitali. Utilizzo energeticamente le matite sul foglio, a volte arrivando a forarlo per errore, o a temere di rovinare lo schermo. Mi piace si percepisca il tragitto che la mia mano ha compiuto per tracciare quella linea e sento una forza misteriosa che mi spinge a tracciarla esattamente così o a colorare in quel modo. Sono stato condizionato sicuramente anche dai miei professori dello IED di Milano, penso che il mio approccio sia sempre stato di questo tipo, ma si è affinato nel tempo grazie allo studio e alla ricerca.

 

In questa serie hai descritto scene di familiare quotidianità, soprattutto domestiche, dove le lampade diventano un elemento di svolta che in modo quasi magico trasforma la percezione della scena, dando vita a nuove interpretazioni, inaspettate e surreali. Puoi raccontarci di più sull’ispirazione dietro questo lavoro?

Certamente, è stata la parte più bella! Volevo trasmettere un senso di quotidianità e trasformare, attraverso il gioco, le lampade in oggetti diversi da ciò che sono, come se i protagonisti delle illustrazioni si sorprendessero a scoprire che quella lampada ricorda un altro oggetto o un altro utilizzo. Come facevamo da bambini, quando prendendo il tubo della carta da cucina finita lo utilizzavamo come cannocchiale o come megafono. Per fare ciò mi sono lasciato ispirare dalle forme delle lampade e ho cercato di tornare bambino! Ecco, quindi, che ci ho visto delle nuvole, un’astronave, una tromba, una mazza da baseball e molto altro ancora; avrei potuto continuare questo gioco all’infinito.

 

Quali sono le illustrazioni che preferisci in questa serie e perché?

La mia preferita in assoluto è NUEE, perché penso che il connubio tra surreale e realtà che cercavo lì sia riuscito alla perfezione. Amo molto anche MITE per lo stesso motivo e LE SOLEIL per l’atmosfera di libertà e spensieratezza.

È sorprendente come, con pochi tratti, le tue illustrazioni riescano a raccontare intere storie, vite, situazioni ed emozioni. Puoi approfondire l’aspetto narrativo del tuo processo creativo?

Istintivamente utilizzo sempre la figura umana nel mio lavoro; è raro che realizzi un paesaggio senza persone o soggetti diversi. L’essere umano diventa quindi protagonista delle mie opere e i suoi sentimenti sono le fondamenta da cui parto per raccontare. Attraverso i protagonisti possiamo leggere e intuire ciò che sta succedendo, quale sia la storia, la situazione e gli avvenimenti che la caratterizzano. Penso all’illustrazione per la lampada TOBIA, in cui vediamo una coppia che si è appena trasferita ed inizia a disfare i pacchi, con la gioia e l’emozione di una nuova casa, con la lampada che viene presa e usata a mo’ di tromba per l’euforia del momento. Ma potrebbe benissimo non essere un trasloco, ma semplici nuovi acquisti per la casa; l’atmosfera è la stessa e lo spettatore vede ciò che più si avvicina alla sua esperienza.

 

Cosa ti incuriosisce maggiormente nella realtà che ti circonda?

È difficile rispondere; sicuramente la natura, che vorrei conoscere ed esplorare di più, la forma delle piante, delle foglie e dei fiori, le nuvole, sono vere architetture o opere di design naturali. Poi sono sempre incuriosito ed attratto da tutta la comunicazione visiva in generale: il mio occhio cade sempre su manifesti, copertine di libri e tutto ciò che è visivo. Scatto molte foto col cellulare come promemoria per poi andarmi a studiare con calma ciò che mi ha catturato.

 

Come descriveresti il tuo rapporto con il colore nel lavoro da illustratore? Cosa ha guidato la scelta dei colori in questa serie per “What’s in a lamp?”

Il mio rapporto con il colore è rinato negli ultimi anni. Tempo fa, dopo i miei studi, disegnavo soprattutto in bianco e nero, aggiungendo di tanto in tanto pochi tocchi di colore. Sicuramente l’influenza delle moltissime illustrazioni colorate che vedevo attorno a me ha acceso il desiderio di colorare anche le mie. Penso di essere stato condizionato anche dallo splendido lavoro di Jean-Charles de Castelbajac, maestro assoluto, che è stato mio direttore artistico per più di due anni. Impazzisco per le vecchie pubblicità illustrate degli anni ’50; ho sempre amato lo stile di quell’epoca, anche degli anni ’40, ed ho sempre guardato film in bianco e nero di quel periodo. Amo le mani che fumano sigarette bianche, gli abiti, i cappelli, la moda di quei tempi, tutto. Questo ha condizionato il mio modo di disegnare i personaggi, sia maschili che femminili, ovviamente in chiave attuale e moderna, ma con un tocco di quel passato. La palette colori che ho utilizzato per “What’s in a lamp?” si rifà a quelle vecchie pubblicità; ho studiato delle tonalità che restituissero anche un certo calore.

 

Oltre alle fonti di ispirazione di cui ci hai parlato, ci sono dei maestri che hanno influenzato più di altri la tua visione artistica?

Parlando di grandi maestri, penso ad Egon Schiele, Picasso e Jean-Michel Basquiat soprattutto, anche Keith Haring, che è uno dei miei miti assoluti per la sua personalità più che per lo stile, per arrivare ad artisti più contemporanei come Marlene Dumas. Mi hanno influenzato molto però anche i fumetti, specialmente le graphic novel, e illustratori come Adelchi Galloni, che è stato mio insegnante allo IED di Milano.

 

Hai una ritualità nel disegnare? Segui particolari abitudini o processi quando lavori alle tue illustrazioni?

Il mio metodo consiste in una ricerca iniziale e riflessione su quello che vuole essere la finalità del progetto. In questo modo nascono le primissime idee che scrivo o abbozzo velocissime a penna su diari che tengo, davvero schizzi quasi incomprensibili, solo per mettere giù l’idea. Poi passo a delle bozze più elaborate ed infine al definitivo. La storia la costruisco nelle prime due fasi.

 

Cos’è per te la creatività?

Penso sia la capacità di vedere il mondo in modo diverso, di immaginare possibilità oltre il comune e di trasformare idee astratte in realtà tangibili. È un processo dinamico che coinvolge l’intuizione, l’ispirazione e l’espressione personale, ma talvolta è anche disciplina e costante impegno per migliorarsi; non sempre è facile!

Scopri di più sulla collaborazione con Mattia Riami e la serie completa sul canale Instagram @foscarinilamps, ed esplora tutte le opere del progetto What’s in a Lamp?, dove artisti internazionali sono chiamati a interpretare la luce e le lampade Foscarini.

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La celebre autrice e illustratrice per bambini Antje Damm arricchisce il progetto “What’s in a Lamp?” di Foscarini con incantevoli diorami in cui le lampade sono protagoniste di narrazioni suggestive, che prendono vita all’interno di scatole di fiammiferi.

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Antje Damm, artista originaria di Wiesbaden, in Germania, si è affermata nel campo della letteratura e dell’illustrazione per bambini. Architetto di formazione, ha poi cambiato direzione dedicandosi alla scrittura e all’illustrazione di libri per bambini, ottenendo riconoscimenti internazionali come il “Best Illustrated Children’s Books” del New York Times / New York Public Library.

Antje porta la sua originale visione artistica nel progetto editoriale “What’s in a Lamp?” di Foscarini, creando una serie di intricati diorami all’interno di piccole scatole di fiammiferi. Piccoli mondi che affascinano per il loro carattere giocoso e spensierato e, contemporaneamente, riescono a riflettere l’anima e il carattere delle lampade Foscarini che li abitano. “Le lampade non sono semplici fonti di luce; sono oggetti fisici, scultorei, capaci di arricchire gli spazi di vita,” spiega l’artista “una buona illuminazione è essenziale in qualsiasi ambiente, e non solo per la funzionalità. È stato stimolante ed emozionante immaginare ambienti e situazioni in sintonia con ciascuna lampada, mescolando situazioni quotidiane con altre, più inaspettate e speciali.”

Nella creazione di queste scene miniaturizzate, l’artista riesce abilmente a bilanciare la libertà espressiva dell’illustrazione con un approccio sperimentale e meticoloso che richiama la sua formazione da architetto. Ogni scena è accuratamente costruita combinando tecniche come il disegno, il collage, l’intaglio su carta allo scopo di creare un’esperienza narrativa evocativa e coinvolgente. Nella sua interpretazione – ad esempio – la lampada da terra Havana trova spazio in una foresta dal sapore quasi magico, mentre Orbital diventa il punto focale di una scena domestica con il suo “design fantasioso e unico che mi ricorda le mobili cinetiche di Calder, che adoro”, spiega Antje. In un altro diorama, la sospensione Big Bang è un contrappunto dinamico e scultoreo ad un’opera d’arte esposta in una galleria.

“La sfida e la soddisfazione di questo progetto risiedono nel catturare l’essenza di ogni lampada nello spazio limitato di una scatola di fiammiferi. Ogni scena racconta una storia, evoca emozioni e trasmette il carattere unico della lampada.”

Antje Damm

Scopri tutti i diorami di Antje Damm sul profilo Instagram @foscarinilamps e immergiti nel suo affascinante percorso artistico attraverso la nostra intervista.

Ciao Antje! Raccontaci qualcosa del tuo percorso artistico, cosa ti ha spinto verso questa strada?

Il disegno e la pittura sono sempre stati il mio modo di esprimermi e riflettere su me stessa, una passione che coltivo sin da bambina. Dopo aver lavorato come architetto per diversi anni, ho iniziato a scrivere e illustrare libri per bambini circa 20 anni fa, quasi per caso. Alla fine, ho dovuto decidere dove concentrare le mie energie perché gestire entrambe le cose, specialmente con quattro figli, è diventato troppo impegnativo. Essere artista, autrice e illustratrice è il lavoro dei miei sogni. Mi permette di lavorare con grande libertà e indipendenza, esplorando costantemente nuove strade perché sono naturalmente curiosa e amo sperimentare nuove idee. Ogni libro è unico e rappresenta una sfida nuova, e interpretare visivamente un’idea comporta sempre rischi.

 

Il tuo background in architettura ha influenzato il tuo approccio alla narrazione visiva e all’illustrazione?

Fondamentalmente, sviluppare un concept architettonico e un concept per un libro presentano molte similitudini. Durante il mio periodo come architetto, ho costruito molti modelli e li ho esplorati nel dettaglio, un’esperienza che oggi applico anche ad alcune delle mie creazioni artistiche, quando costruisco ambientazioni in carta e cartoncino per poi fotografarle. È un approccio giocoso, sperimentale e libero, che mi permette di apportare facilmente modifiche, aggiustamenti e integrazioni, e focalizzare poi il risultato nella fotografia. Mi piace molto lavorare in tre dimensioni.

 

Il tuo modo di mescolare diverse tecniche artistiche è particolare e distintivo, come descriveresti il tuo stile?

Definire il mio stile è complesso perché varia a seconda del progetto. Sperimento con tecniche come il disegno, il collage e l’illustrazione digitale, adattandomi alla storia che sto raccontando. Di recente, ho esplorato l’uso degli intagli su carta per la loro natura evocativa e astratta, una caratteristica che si è rivelata perfettamente in sintonia con la storia che stavo illustrando.

 

Come è nata l’idea di usare le scatole di fiammiferi come tela?

Durante la pandemia di COVID-19, tutti i miei tour programmati per la presentazione dei libri sono stati cancellati, lasciandomi con un sacco di tempo libero. È stato allora che mi è venuta l’idea di creare questi piccoli diorami all’interno delle scatole di fiammiferi. Da subito molte persone si sono appassionate alle mie miniature e per me è divertente costruirle. È un’attività rilassante ma anche stimolante, perché è sempre una sfida raccontare una storia in uno spazio così limitato.

 

Hai una routine creativa, in che modo riesci a coltivare l’ispirazione e a superare le sfide che si presentano nel processo artistico?

Lavoro da casa, e a volte lo spazio può sembrare un po’ limitato. Per fortuna, vivo vicino a un bosco, e la natura gioca un ruolo fondamentale per stimolare la mia creatività. Trascorro molto tempo all’aria aperta, meravigliandomi dei cambiamenti delle stagioni, raccogliendo funghi e osservando piante e animali. Spesso visito mostre, alla continua ricerca di nuove idee e stimoli.

 

 

Nella tua serie per “What’s in a Lamp?” le lampade Foscarini sono protagoniste all’interno di scene di quotidianità raccontate nello spazio limitato di una scatola di fiammiferi. Come sei riuscita a inserire le lampade di Foscarini in queste piccole narrazioni e quali sfide o soddisfazioni hai incontrato?

Il design di mobili e lampade mi ha sempre affascinato ed è stato una parte significativa del mio lavoro come architetto. Amo tutte le cose belle e le lampade, in particolare, sono per me molto più di semplici fonti di luce. Sono oggetti fisici, quasi sculture, che possono davvero arricchire gli spazi in cui viviamo. Mi piace fermarmi a osservarle. Una buona illuminazione è essenziale in qualsiasi ambiente; ci accompagna e rende lo spazio funzionale, ma è molto più di questo. È stato stimolante ed emozionante immaginare ambienti e situazioni in sintonia con ciascuna lampada, mescolando scene quotidiane con momenti più inaspettati e speciali.

Cosa ti ha ispirato in questo progetto?

La sfida e la soddisfazione di questo progetto risiedono nel catturare l’essenza di ogni lampada. Che emozioni e pensieri suscita? Qual è l’ambiente ideale per esaltarla? Ad esempio, ho subito immaginato che la lampada Havana fosse perfetta in un contesto naturale, in sintonia suo fascino ancestrale.

 

Come hai scelto le lampade da inserire in queste scene in miniatura?

Ho scelto le lampade che mi hanno colpito di più. Big Bang è una scultura interessante che appare sempre diversa. Ho scelto anche una lampada piccola e simpatica, come Fleur, perché mostra l’ampio e affascinante spettro che le lampade possono coprire.

 

Hai un’opera preferita nella serie “What’s in a lamp?”?

Mi piace molto la scatola con la lampada Orbital. È la mia lampada preferita per il suo design fantasioso e unico che mi ricorda le mobili cinetiche di Calder, che adoro.

 

In generale, qual è la tua cosa preferita da ritrarre?

Amo ritrarre scene naturali e piccoli ambienti con un’atmosfera speciale.

 

La tua arte ha un fascino universale che va oltre le barriere linguistiche. Come riesci a combinare illustrazione e narrazione nel tuo processo creativo?

Quando crei un libro per bambini, la chiave sta proprio nel riuscire a raccontare storie attraverso immagini capaci di arricchire e completare il testo scritto, ponendo domande o a volte addirittura contraddicendolo. La cosa fantastica è che chiunque può “leggere” le immagini, indipendentemente dalla lingua che parla.

 

La selezione dei colori è cruciale nelle tue opere. Come decidi la palette e quale ruolo svolge nel trasmettere l’atmosfera dei tuoi lavori?

I colori sono veicoli di emozioni che utilizzo in modo molto intuitivo, senza pensarci troppo Nel mio libro illustrato “L’ospite inatteso” sono proprio i colori a costruire la storia: un bambino visita una donna anziana, portando un tocco di colore nella sua vita grigia.

 

I tuoi lavori presentano una prospettiva unica sulla realtà. Cos’è la creatività per te e come la coltivi?

È un approccio per me fondamentale nella vita in generale: la creatività va oltre l’arte, è un aspetto essenziale della mia vita, sia personale sia professionale. Si tratta di cercare costantemente soluzioni, esplorare nuove strade, anche e soprattutto nei momenti difficili, e trovare bellezza e significato in tutto ciò che mi circonda. E ha molto a che fare anche con la speranza.

 

La nuova serie del progetto editoriale “What’s in a Lamp?” ci invita a guardare le cose da una prospettiva diversa. I pattern geometrici di Lee Wagstaff nascondono più di quanto possa emergere al primo sguardo rivelando realtà alternative e personaggi fantastici nelle forme delle lampade Foscarini.

Il percorso artistico di Lee Wagstaff, dalla precoce passione per i disegni scientifici durante l’infanzia fino alla formazione artistica alla scuola St. Martins e al Royal College of Art di Londra, è segnato dall’esplorazione creativa dei pattern e delle geometrie e trova espressione nel suo stile unico, caratterizzato da una dinamica combinazione di forme e colori. Nell’arte di Wagstaff, l’osservazione è fondamentale. La sua estetica richiama le illusioni dell’Optical Art, i paesaggi onirici del Surrealismo e la vivacità della Pop Art, e riesce a suscitare meraviglia e curiosità sfidando la percezione. Se l’osservazione profonda delle sue opere rivela infatti dettagli intricati, allontanandosi si rivelano invece volti nascosti, personaggi e storie.

Nella sua serie per il progetto “What’s in a Lamp?” di Foscarini l’artista britannico crea un universo parallelo abitato da maghi, giullari e spiriti, i cui volti enigmatici emergono tra intricati intrecci geometrici dai colori vivaci. La collezione Foscarini, con le sue molteplici lampade caratterizzate da personalità diverse, stimola l’immaginazione di Lee Wagstaff, ispirandolo a immaginare e creare storie e personaggi fantastici. E così prendono vita il vivace giullare Orbital e il mistico genio Plass; Caboche si trasforma in una saggia sovrana dai mille occhi e le forme diverse di Spokes incarnano misteriosi spiriti.

“Cerco di catturare un senso di mistero o un’essenza, invitando l’osservatore a non fidarsi dei propri sensi. Inizio individuando dei volti, che gradualmente si caricano di personalità. Suggerisco appena la loro presenza, permettendo allo spettatore di costruire il personaggio nella propria mente e meravigliarsi della sua scoperta.”

Lee Wagstaff

Scopri tutte le opere della serie sul profilo Instagram @foscarinilamps e lasciati ispirare dal percorso artistico di Wagstaff e dalla sua visione creativa leggendo la nostra intervista.

Raccontaci un po’ di te e del tuo percorso. Dove è iniziato tutto? Come sei diventato un artista?

Ero un bambino molto tranquillo e introverso, quindi disegnavo molto, soprattutto la natura. A scuola mi piacevano molto le lezioni di scienze, non tanto per le nozioni, ma perché mi piaceva arricchire di disegni i miei compiti a casa. Il mondo dell’arte è qualcosa a cui sono arrivato per il fatto che avevo alcuni amici artisti, con cui ho frequentato dei corsi serali. Con il tempo, ho approfondito i miei studi alla St. Martins e poi al Royal College of Art di Londra. Per me, l’arte non è mai stata un percorso professionale, ma un modo per osservare il mondo più intensamente.

 

La tua estetica artistica è straordinariamente unica, con pattern ipnotici che rivelano volti realistici quando osservati da lontano. Come definiresti il tuo stile?

La gente me lo chiede spesso. Ho sempre amato i pattern e la geometria da quando riesco a ricordare e probabilmente c’è una connessione tra questo e la mia passione infantile per i disegni scientifici. In biologia ci sono molti pattern. Quando ho iniziato a studiare arte, ho voluto esplorare pattern più definiti e rigorosi. Nel mio lavoro si possono trovare elementi di Optical Art, Pop Art, Surrealismo e astrazione. Direi che mi piace lavorare seguendo una struttura, ma cerco sempre di spingere i miei limiti sia dal punto di vista tecnico che intellettuale.

 

Come si è evoluto nel tempo il tuo stile espressivo? È stato uno sviluppo naturale o il risultato di una ricerca e sperimentazione intenzionali?

Sperimento molto. Ci sono voluti anni perché la mia arte diventasse quello che è ora e spero che continui a evolversi nel tempo. Che ci crediate o no, il mio obiettivo a lungo termine è raggiungere uno stile artistico il più semplice possibile, ma sento sia necessario attraversare una fase di maggiore complessità per arrivarci.

 

Perché i pattern giocano un ruolo così significativo? Che significato hanno per te?

I pattern sono indicatori, aiutano a prevedere le cose. Sono interessato a tutti i tipi di pattern, non solo quelli decorativi, ma anche pattern comportamentali o nel trovare pattern nella storia. La mia ricerca consiste nel trovare connessioni tra oggetti, eventi o persone che, a prima vista, sembrano non correlati.

 

Qual è il tuo processo creativo quando lavori alle tue opere? Hai dei rituali o abitudini ricorrenti?

Sì, ho dei rituali ben definiti per quanto riguarda gli orari e il luogo in cui lavoro, i materiali che utilizzo, eccetera. Di solito, lavoro contemporaneamente su almeno sei dipinti, o anche di più, e ne distruggo molti nel corso del processo creativo.

 

Puoi raccontarci qualcosa del tuo processo creativo e narrativo, specialmente in questa serie?

Questo progetto è stato un’esperienza interessante e più impegnativa di quanto mi aspettassi. Non avevo mai affrontato prima il compito di interpretare la visione artistica di altri attraverso il mio stile. Ho cercato di essere rispettoso nei confronti dei designer, ma anche fedele alla mia visione. Lavorare su questo progetto mi ha spinto a essere più audace nell’esplorare le possibilità dei colori e ad immaginare che questi oggetti/personaggi possono esistere nella realtà.
Di solito, il mio processo inizia con un’attenta osservazione dei pattern e delle forme, poi immagino volti, e poi i volti iniziano ad assumere una personalità.  Il mio obiettivo artistico è catturare un senso di mistero o un’essenza, ma voglio anche che chi osserva sia spinto inizialmente a non fidarsi dei propri sensi, per poi meravigliarsi di quello che pensa di essere riuscito a scorgere. Lascio che lo spettatore costruisca il personaggio nella propria mente; forse gli ricorderà qualcuno che conosce o un volto che ha visto da qualche parte.

 

Puoi descrivere i personaggi che hai immaginato per la serie “What’s in a Lamp?” e cosa li ha ispirati?

Non appena ho visto le lampade della collezione Foscarini ho subito notato che i designer condividono la mia passione per i pattern e le forme. Immediatamente ho iniziato a vedere dei volti all’interno o intorno alle lampade e a dar vita a personaggi ispirandomi ai loro nomi suggestivi. Plass è uno spirito magico, simile a un genio racchiuso in un contenitore, che osserva il mondo attraverso la sua superficie cristallina, in attesa di esaudire un desiderio o fare una profezia. Orbital è un giullare, sempre pronto a portare gioia con le sue forme e i suoi colori, un compagno fedele nei giorni belli e in quelli difficili. Gregg è una dea nata da un uovo cosmico che risplende e illumina; la sua bellezza è eterna, il suo bagliore soprannaturale. Spokes sono tre spiriti timidi, tre sorelle che appaiono solo a chi ha una fervida immaginazione e la pazienza di osservare e attendere. Quando le ombre si spostano, è lì che le sorelle appaiono. Caboche è una sovrana dai mille occhi. Il suo diadema le copre il volto, ogni sfera è una lente. Lei vede tutto e sa tutto. E la sua sola presenza getta bellezza e saggezza su tutto ciò che le sta attorno. Sun Light of Love un autentico essere celeste. Durante il giorno, si presenta come una silhouette puntuta e curiosa, un pianeta dai misteri nascosti; di notte, brilla come una stella ardente, un vero faro dell’amore.

Tra le opere della tua serie “What’s in a Lamp?”, qual è la tua preferita? Cosa la rende speciale?

È abbastanza difficile scegliere, mi sento molto legato a tutte e sei le lampade che ho ritratto. Ho passato molto tempo a guardarle e ad immaginare cosa avrei potuto aggiungere a quelle forme. Se dovessi sceglierne una, sarebbe Gregg, perché è una forma geometrica unica a sé stante, che è un blocco di partenza per creare qualsiasi pattern. È elegante nella sua semplicità e ha una presenza affascinante e calma. Ovunque si trovi, ha il potere discreto e gentile di migliorare l’ambiente circostante, sia che si tratti di spazi interni o esterni, grandi o piccoli.

 

Hai mai considerato l’integrazione dell’intelligenza artificiale nel tuo processo artistico? Secondo te, l’IA potrebbe favorire l’innovazione e ampliare l’espressione artistica?

Mi è capitato di utilizzare le “Reti Generative Avversarie” (GAN) per creare volti simmetrici unici per i miei dipinti. La tecnologia GAN che utilizzavo permetteva di “incrociare” uno specifico volto con altre migliaia di volti con cui il sistema era stato alimentato e addestrato. Questo rendeva possibile introdurre più facilmente i tratti specifici di familiari, ad esempio, o del viso della Monna Lisa. Dal mio punto di vista, si tratta semplicemente di uno strumento, come Photoshop, o una penna. I programmi di intelligenza artificiale sono divertenti e possono aiutare in molti progetti. L’IA è espansiva, e in questo senso permette a molte più persone di partecipare alla creazione di immagini e idee, tuttavia, pur potendo creare contenuti, non ha immaginazione, e questo è qualcosa che, al momento, non può essere insegnato. Il modo in cui funzionano le piattaforme di IA più popolari è una sorta di riorganizzazione predittiva dei dati. Per me, è uno strumento sorprendente, specialmente per la velocità, ma i risultati sono per lo più deludenti perché spesso sono molto populisti,  persino prevedibili.

 

Cos’è la creatività per te?

Per me, la creatività è partire da nulla o da pochissimo e trasformare un’idea in qualcosa di concreto, che possa essere condiviso o utilizzato. È risolvere un problema, ma non sempre nel modo più semplice o ovvio.

 

In un contesto dinamico e in continua evoluzione come quello del design, alcune creazioni riescono a resistere alla prova del tempo, diventando simboli iconici di innovazione e creatività. Havana di Jozeph Forakis è uno di questi, ed oggi celebra il suo 30° anniversario.

Scopri Havana

Una lampada iconica che è stata capace di entrare nelle case e nell’immaginario collettivo, diventando un nuovo archetipo di lampada. Nata nel 1993, Havana si è affermata come un oggetto luminoso nuovo: una lampada a mezza altezza, quasi una nuova tipologia, con un corpo diffusore importante e molto visibile, che diffonde luce dal centro. Una figura familiare, un “personaggio” con cui instaurare una relazione personale, facile da inserire in ogni ambiente, per caratterizzarlo con la sua luce calda.

Il processo di sviluppo, dall’idea al prodotto, è stato accurato e graduale. I primi prototipi, realizzati in vetro e vetroresina, risultavano pesanti e costosi e avevano il difetto di far passare poca luce – perdendo la leggerezza e ironia insita nel concept. In una mossa rivoluzionaria, si è presa la decisione di abbandonare il vetro a favore della plastica, segnando così un momento cruciale per Foscarini. Una scelta che ha contribuito in modo significativo a determinare ciò che è diventata Foscarini oggi. Un’azienda che sceglie di mettere sempre al centro il design, senza porsi limiti e senza fare compromessi, per sviluppare appieno lo spirito di ciascun progetto. Ricorda Jozeph Forakis:

“Havana fu la prima lampada in materiale plastico fatta da Foscarini. Era un po’ un rischio ma Foscarini, che si dimostrò molto coraggiosa, decise di azzardare questa novità assoluta.”

JOZEPH FORAKIS
/ Designer

Il successo di Havana non è stato privo di sfide. Inizialmente accolta con scetticismo da alcuni rivenditori, è diventata presto un archetipo del design. Il suo ingresso nella collezione del Museum of Modern Art (MoMA) di New York nel 1995 ha rappresentato un momento decisivo, confermando la sua rilevanza nella storia del design.

Nei suoi 30 anni di storia, Havana è stata presentata in varianti cromatiche e funzionali, inclusa una versione outdoor, senza mai perdere la sua forma distintiva e la sua straordinaria capacità di evocare un’eco emotiva con la sua presenza calda e familiare.

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Durante l’evento Festivaletteratura Mantova, il designer – e inventore – Marc Sadler ha affascinato il pubblico con intriganti aneddoti sulla sua carriera e il suo talento innovativo, in una conversazione con Beppe Finessi, sponsorizzata da Foscarini.

Sabato 9 settembre 2023, in occasione del Festivaletteratura, si è tenuto nella meravigliosa cornice del Teatro Bibiena di Mantova un talk con Marc Sadler, intervistato da Beppe Finessi. Sadler ha affascinato il numeroso pubblico intervenuto raccontando la sua lunga esperienza come designer industriale e inventore di soluzioni spesso innovative per il settore di riferimento. Come quando, negli anni ’70, dopo un incidente sulla neve che lo aveva costretto a letto in ospedale, iniziò ad immaginare di utilizzare la plastica per progettare dei nuovi scarponi da sci più sicuri, in un momento in cui erano ancora realizzati in pelle. Il risultato fu il primo scarpone da sci in materiale termoplastico. O quando progettò con Dainese una tuta da motociclista che fungesse effettivamente da protezione per gli atleti, come ad esempio con l’utilizzo del paraschiena, oggi indossato da numerosi campioni.

Come professionista che ha – da sempre – messo al centro del proprio lavoro l’innovazione, al servizio delle richieste dei clienti e delle esigenze di vendita, Sadler ha collezionato ben quattro Compassi d’Oro, tra cui quello per le lampade Mite e Tite di Foscarini, ottenuto nel 2001.

“Ho conosciuto Foscarini in un periodo in cui abitavo a Venezia e Mite è stato il primo progetto sviluppato insieme. Per me Foscarini era una piccola azienda che faceva vetro ed era una realtà lontana da ciò che facevo io. Un giorno, per caso su un vaporetto, ho conosciuto uno dei soci. Parlando del nostro lavoro e di ciò che facevamo, mi riferì di un tema sul quale stavano riflettendo. Mi chiese di pensare a un progetto che avesse il sapore incerto del vetro – quell’aspetto artigianale che è impossibile da controllare e che fa sì che ogni oggetto abbia la sua personalità – ma che si potesse produrre industrialmente, con una visione più integrata”.

MARC SADLER
/ Designer

Per Foscarini Sadler ha ideato anche l’iconica Twiggy «che è diventata, dopo l’arco di Castiglioni, il nuovo archetipo della lampada da terra, spesso utilizzata anche in numerose pubblicità di altre aziende», ha ricordato Beppe Finessi.

Illustrando i progetti più importanti della sua lunga carriera, Sadler ha evidenziato come abbia spesso trasferito le proprie conoscenze da un settore ad un altro, cercando ad esempio di trasportare le invenzioni del mondo dello sport al design industriale.

“Sono sempre stato versatile disegnando dalle scarpe alle lampade, dai banconi per i gelati alle vasche idromassaggio. Ascoltando le esigenze della committenza, ho cercato di disegnare oggetti che potessero rispondere alle esigenze di un pubblico. Questo è ciò che mi piace fare”

MARC SADLER
/  Designer

La nascita della lampada-scultura Orbital ha rappresentato per Foscarini non solo l’inizio della collaborazione con Ferruccio Laviani, ma anche una dichiarazione d’intenti: abbiamo abbandonato per la prima volta il vetro soffiato di Murano, abbracciando il pensiero che oggi ci porta a gestire più di venti tecnologie diverse.

Se dovessi raccontare la collaborazione con Foscarini con un aggettivo, quale sceglieresti?

Ne userei due: proficua e libera. La prima parola ha un sapore pecuniario ma non va intesa in questo senso, o meglio non solo. Il fatto che quasi tutte le lampade che ho disegnato per Foscarini siano ancora a catalogo è un’ottima notizia sia per il mio studio che per l’azienda.
Ma la definisco proficua soprattutto perché aver disegnato oggetti che, a distanza di 30 anni, la gente ancora apprezza è un enorme sollievo per un progettista: è la conferma che quello che fa ha un senso.
C’è poi il tema della libertà creativa. Foscarini mi ha permesso di muovermi con estrema indipendenza espressiva dal prodotto agli spazi, senza mai imporre paletti di nessun tipo. È cosa veramente rara e preziosa.

 

Come mai, secondo te, siete arrivati a questa libertà espressiva e creativa?

Penso sia parte del modo di essere delle persone coinvolte. Se un progettista si guadagna la sua fiducia, Foscarini risponde lasciando una libertà di espressione totale. Sono coscienti del fatto che è il modo migliore di ottenere il massimo dalla collaborazione, per entrambe le parti. Ovviamente una volta constatato che al lavoro “di pancia” segue poi anche quello “di testa”. Nel mio caso Orbital è stata la scommessa iniziale: una lampada dall’estetica così connotata sarebbe piaciuta? Avrebbe resistito al test del tempo? La risposta del pubblico è stata affermativa e, da quel momento, il nostro sodalizio è sempre stato all’insegna della massima libertà.

Cosa significa questa libertà per un designer?

Dà la possibilità di sondare diverse sfaccettature del possibile. Per una persona come me, che non si è mai identificato in uno stile o un particolare tipo di gusto ma si innamora periodicamente di sapori, atmosfere, decori sempre diversi, questa libertà è fondamentale perché mi permette di esprimermi. Non ho pretese artistiche e sono ben conscio che quello che faccio è produzione: oggetti di serie che devono avere una funzione ben chiara e assolverla al meglio. Di fianco a queste considerazioni razionali, però, quello che mi agita nell’atto creativo è il desiderio. La voglia, quasi incontenibile, di dar vita a un oggetto che non c’è: qualcosa che vorrei avere come parte della mia vita.

Come sono questi oggetti che desideri e quindi progetti?

Non ho una risposta dal punto di vista dello stile: faccio cose sempre diverse perché mi sento sempre diverso e riempio i miei spazi fisici e mentali con presenze che variano nel tempo e riflettono questi paesaggi personali. Mi affascina però tutto quello che crea un legame con le persone e tra le persone. Alle cose che progetto quindi do sempre un carattere: quello che a mio avviso riflette al meglio il mio modo di interpretare lo spirito del tempo. A volte dell’attimo. Questo è molto più vero per una lampada piuttosto che per un altro elemento d’arredo perché una lampada decorativa si sceglie per un’affinità, per quello che dice a noi e di noi. È l’inizio di un dialogo ideale tra il designer e l’acquirente. Se poi quella lampada continua a parlare alla gente anche dopo 30 anni vuol dire che quella conversazione è rilevante e ancora riesce a dire qualcosa di significativo.

L’evento per il trentennale di Orbital è stato anche occasione di presentare ufficialmente il nuovo progetto fotografico NOTTURNO LAVIANI, con una mostra dedicata a Foscarini Spazio Monforte. In questo progetto Gianluca Vassallo interpreta le lampade che Laviani ha disegnato per Foscarini in una narrazione che procede per episodi, con quattordici scatti in cui le luci abitano spazi alieni.

Scopri di più su Notturno Laviani

Cosa provi davanti all’interpretazione che Gianluca Vassallo ha fatto delle tue lampade?

La sensazione di un cerchio che si chiude. Perché Gianluca racconta una sua idea di luce usando gli oggetti che ho disegnato come sottili ma significative presenze. Ed è lo stesso che accade quando una persona decide di mettersi in casa una mia lampada. Davanti a Notturno provo dunque quella stessa grande emozione che provo quando qualcuno si impossessa di un mio progetto e lo rende partecipe della sua esistenza: la sensazione è quella – bellissima – di aver fatto qualcosa che ha un senso e una rilevanza per gli altri.

 

Qual è lo scatto che più ti rappresenta?

Senz’altro quello della Orbital in esterno: il cavalcavia con il manifesto stracciato del circo. Perché io sono così: tutto e il contrario di tutto.

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In un coinvolgente talk condotto da Beppe Finessi nell’ambito di Festivaletteratura 2022, Ferruccio Laviani ha condiviso la sua passione e il suo approccio unico al design degli oggetti e delle esperienze.

Il 10 settembre 2022, presso il suggestivo Teatro Bibiena, si è tenuto il talk “Infatuati dagli Oggetti”, con il designer Ferruccio Laviani intervistato da Beppe Finessi. Laviani ha portato il pubblico in un viaggio affascinante attraverso la sua esperienza nel mondo del design. Partendo dalle sue radici nella scuola di liuteria e passando attraverso il disegno di mobili, ha condiviso le sue riflessioni sulla creazione di oggetti che vanno oltre la mera funzionalità, cercando di suscitare emozioni e connessioni personali.

“Di vetrine colme di sedie, lampade e tavoli è pieno il mondo, perché mai uno dovrebbe prenderne uno nuovo disegnato da me? La risposta è semplice: far sì che le persone vedano i miei prodotti con gli stessi occhi di quando si innamorano di qualcuno”.

FERRUCCIO LAVIANI
/ Designer

Con umiltà e sincerità, il designer cremonese ha raccontato aneddoti sulla sua carriera offrendo uno sguardo intimo sulle sue opere più iconiche e sulle sfide affrontate lungo il percorso creativo. Stimolato dalle domande di Beppe Finessi, Laviani ha condiviso la sua filosofia dietro alla creazione di oggetti che mescolano stili e influenze diverse, dando vita a creazioni che sfidano il tempo e gli stili convenzionali, aprendo nuove prospettive sulla creatività e sull’estetica contemporanea.

Per rivivere l’esperienza del talk e immergerti nell’universo di Ferruccio Laviani, non perderti il video dell’evento.

Guarda il video del talk

Mite è la lampada che ha segnato l’inizio dell’ormai storica collaborazione tra Foscarini e Marc Sadler: un progetto che sovverte gli schemi assecondando quelli che il designer definisce “picchi di irragionevolezza”, l’attitudine che permette di esplorare tutte le potenzialità di un materiale e di una tecnologia.

Nel 2001 Mite è stata premiata con il Compasso d’Oro ADI, il più autorevole premio mondiale di design, insieme alla versione da sospensione Tite. Sono trascorsi vent’anni da allora, e riteniamo che questo evento, come il carattere iconico e senza tempo di Mite, meriti una celebrazione adeguata. Nasce così Mite Anniversario, che fa evolvere il concetto originale di Mite attraverso ulteriori sperimentazioni e variazioni. In questa importante occasione abbiamo intervistato Marc Sadler e fatto un’interessante chiacchierata su Mite, Tite e sul design legato all’illuminazione.

 

COME È INIZIATA LA COLLABORAZIONE CON FOSCARINI PER LA LAMPADA MITE?

MS — “Ho conosciuto Foscarini in un periodo in cui abitavo a Venezia e Mite è stato il primo progetto sviluppato insieme. Per me Foscarini era una piccola azienda che faceva vetro ed era una realtà lontana da ciò che facevo io. Un giorno, per caso su un vaporetto, ho conosciuto uno dei soci. Parlando del nostro lavoro e di ciò che facevamo, mi riferì di un tema sul quale stavano riflettendo. Mi chiese di pensare a un progetto che avesse il sapore incerto del vetro – quell’aspetto artigianale che è impossibile da controllare e che fa sì che ogni oggetto abbia la sua personalità – ma che si potesse produrre industrialmente, con una visione più integrata. Ci siamo lasciati salutandoci, promettendogli di pensarci.”

 

QUAL È STATA L’IDEA PRINCIPALE CHE HA DATO IL VIA A QUESTO PROGETTO?

MS — “Stavo andando a Taiwan per un progetto di racchette da tennis e di mazze da golf per un’azienda che lavorava la fibra di vetro e la fibra di carbonio. Quello è un mondo per cui i prodotti hanno grandi numeri, non pochi esemplari. La racchetta, quando la si produce, quando esce dagli stampi, è bellissima; poi le persone che la lavorano cominciano a pulirla, a rifinirla, a verniciarla, a ricoprirla di vari elementi grafici e così pian piano perde parte del fascino della fase produttiva. Alla fine hai un oggetto che è carico di segni che nascondono la vera struttura e il prodotto finale risulta per me sempre meno interessante del prodotto nella fase iniziale. Per il mio lavoro di progettista preferisco il prodotto allo stato grezzo, a monte delle finiture, quando è ancora un oggetto “mitico”, bellissimo, perché la materia vibra. Proprio guardando questi pezzi in controluce si vedevano le fibre, e ho notato come la luce trapassava la materia. Mi sono preso un po’ di questi campioni e li ho portati a Venezia. Appena tornato ho chiamato Foscarini e ho detto loro che stavo pensando ad un modo di usare questo materiale. Anche se la fibra di vetro, fatta di pezze di materiale ha dei limiti nelle sue incertezze di lavorazione, io pensavo a un oggetto da produrre industrialmente. Proporlo a loro era un po’ un azzardo perché ci volevano grosse quantità di produzione per giustificarne l’uso e non era un materiale troppo versatile e adattabile. Se fossimo però riusciti a tenerlo in quell’affascinante stato materico, sarebbe stata una bellissima occasione di applicarlo a un progetto di illuminazione.”

COME È STATA LA FASE DI RICERCA E SVILUPPO?

MS — “Abbiamo suonato a tanti campanelli di fornitori che usavano gli stessi materiali e le stesse tecniche per produrre vasche per i vini o attrezzi sportivi, ma purtroppo non si sono resi disponibili a collaborare per questa ricerca sperimentale. Non perdendoci però d’animo, abbiamo continuato a cercare, fino a trovare un imprenditore che lavorava questo materiale anche per le sue ricerche personali (si era costruito un deltaplano a motore). Lui si è appassionato al progetto e si è subito reso disponibile. Aveva un’azienda che produce canne da pesca straordinarie e molto particolari, ma ha deciso di lanciarsi con noi nel mondo della luce. Ci mandava dei campioni di prove che faceva in autonomia, chiedendoci pareri su nuove resine e nuovi filati. Il design è fatto di persone che agiscono e interagiscono insieme. Questa è una magia tutta italiana. Spesso in aziende nel resto del mondo aspettano che arrivi il designer che, come un supereroe, ti consegni tutto già pronto, chiavi in mano. Ma non funziona così: per fare dei progetti veramente innovativi serve un confronto continuo in cui si trovano i problemi e si risolvono insieme. A me piace lavorare così.”

 

SONO STATI SVILUPPATI MODELLI E PROTOTIPI DI STUDIO?

MS — “Il primo modello era fatto con uno stampo chiuso tradizionale, poi ci è venuto in mente di provare un’altra tecnica – il “rowing” – che si basa sull’avvolgimento di fili attorno a un corpo pieno. Osservando i fili che si potevano usare, ho trovato delle matasse considerate difettate, in cui il filo non era perfettamente lineare, ma risultava un po’ vibrato. Questo tipo di filo è diventato poi quello impiegato nella produzione finale. Le fibre non sono tutte regolari: noi abbiamo voluto valorizzare questo “difetto” che lo ha trasformato in una qualità sempre unica. Abbiamo voluto spogliarci del senso di tecnicità e abbiamo voluto portare il valore della manualità e un sapore materico caldo, come si sa fare in Italia. In un prototipo iniziale avevo troncato la sommità con un taglio a 45 gradi inserendo un faro di automobile. Se rivedo oggi quel primo prototipo mi disturba un po’, ma è assolutamente normale perché rappresenta l’inizio di un lungo percorso di ricerca. Per arrivare a un prodotto semplice, bisogna lavorare molto. All’inizio il mio segno era troppo forte, quasi violento. Foscarini è stata brava a mediarlo, ed è giusto così, questo è il design. È il giusto equilibrio tra le parti in campo per fare insieme un’opera comune. Solo lavorando con Foscarini, che sa trattare la luce, che sa dare quel sapore alle trasparenze e quel calore alla matericità, abbiamo fatto sì che il prodotto raggiungesse la sua giusta proporzione e autenticità. Siamo riusciti a ottenere un oggetto molto più netto, pulito, per cui la cosa importante è la luce che produce, la trasparenza del corpo e la vibrazione che si visualizza nel disegno. Non un oggetto che urla, ma un elemento dolce che entra nelle case.”

 

QUALI SONO LE SFIDE SPECIFICHE DI UN PROGETTO CON LA LUCE?

MS — “Dopo questa lampada e dopo questo approccio ai materiali compositi, mi sono un po’ ritrovato l’etichetta del designer che fa lampade con materiali ricercati. Questo non mi disturba, anzi, è ciò che insieme a Foscarini amiamo fare. Quindi oggi se trovo nelle mie ricerche qualcosa di interessante o di non ancora utilizzato per il mondo della luce, Foscarini è l’azienda con la quale potrei avere il miglior potenziale per sviluppare qualcosa di originale e innovativo.”

 

QUALI SONO GLI ASPETTI PIÙ SIGNIFICATIVI DELLA TECNOLOGIA LUMINOSA IMPIEGATI PER QUESTO PROGETTO?

MS — “La tecnologia luminosa in 20 anni è evoluta moltissimo, per cui ora utilizziamo il LED. Rispetto alla tecnologia del passato, è un po’ come pensare alla differenza che c’è tra un motore a iniezione elettronica e uno a carburatore. Anche con il carburatore si potevano ottenere ottimi risultati, ma serviva un genio che sapeva ascoltare il motore e poi regolava tutto manualmente. Per Mite è successa un po’ la stessa cosa. Nella prima versione avevamo messo una lampadina piuttosto lunga posizionata ad una certa altezza. Per chiudere il fusto abbiamo modellato una lastra circolare di metallo cromato con certi angoli che abbiamo sperimentato con diverse inclinazioni, per riflettere la luce diretta verso l’alto ma anche per far scendere la luce nel corpo della lampada, permettendo alla luce di lambire il materiale retro-illuminandolo. Ovviamente quella tecnologia poneva dei limiti alla libertà di azione, mentre oggi con i LED possiamo portare l’effetto luminoso esattamente dove vogliamo.”

 

COM’È CAMBIATO IL LAVORO DI PROGETTISTA IN QUESTO PRIMO VENTENNIO DEL NUOVO MILLENNIO?

MS — “Io sono felice oggi con il mio lavoro perché mi sembra di essere ritornato negli anni ‘70, quando l’imprenditore contava molto e metteva sul tavolo delle intenzioni chiare fatte di obiettivi, un programma di tempi, il giusto denaro e – sapendo di aver lavorato bene fino a quel punto – aveva l’intenzione di voler andare dove non era mai andato. Sarà questo periodo molto duro della pandemia, sarà che comincio a far fatica a lavorare con le grandi aziende multinazionali come quelle orientali, ma penso che sia tornato il momento di rimettersi a lavorare direttamente con degli imprenditori in prima persona.”

QUANTO È IMPORTANTE IL “TRASFERIMENTO TECNOLOGICO” NELLE RICERCHE DI DESIGN?

MS — “È fondamentale. Il mio lavoro si potrebbe vedere come il principio dei vasi comunicanti. Prendo una cosa da una parte, la “tiro” e la porto in un’altra parte per vedere cosa succede. L’ho sempre fatto per tutta la vita. Nel mio studio c’è un’officina dove con le mie mani posso costruire o riparare qualunque cosa e questo mi aiuta molto. Non è il concetto di sapere dove sta lo “sky’s limit”, però penso molto prima di dire di no a qualcosa, perché spesso ci sono già delle soluzioni altrove e quindi basta capire come trasferirle.”

 

QUESTA LAMPADA È FATTA DI UN “TESSUTO” (TECNOLOGICO) AUTOPORTANTE: CHE IDEA RELAZIONA IL TESSILE CON IL DESIGN DELLA LUCE?

MS — “In Mite l’importanza del tessuto è data dal vantaggio di poter avere una trama che fa vibrare la luce quando passa dal corpo e non è stato semplice trovare il giusto tessuto. Ma con il tessuto, nelle sue infinite variabili, si possono sempre fare cose meravigliose con la luce e infatti con Foscarini stiamo continuando a sperimentare e sviluppare nuovi progetti.”

 

COSA SIGNIFICA IL NOME MITE E LA SUA VARIANTE DA SOSPENSIONE TITE?

MS — “Il nome deriva da un gioco verbale in francese che mia madre mi aveva insegnato da bambino, per ricordarmi la differenza tra le conformazioni calcaree nelle caverne, divise in quelle che salgono dal basso, le stalagmiti, e quelle che scendono dall’alto, le stalattiti. Da qui l’idea del nome. Anche se inizialmente pensavo alla logica della forma che si assottiglia allontanandosi dal pavimento o dal soffitto – quindi i nomi delle due lampade dovrebbero essere invertiti – questa logica funziona bene comunque anche per assonanza tipologica: la (stalag)MITE è appoggiata a pavimento e la (stalag)TITE pende dal soffitto.”

Era il 1990 quando Foscarini presentò una lampada di vetro soffiato, caratterizzata dall’abbinamento con un treppiede di alluminio, nata dall’incontro con il designer Rodolfo Dordoni che rileggeva con un nuovo spirito la classica tipologia dell’abat-jour. Quella lampada si chiamava Lumiere.

Scopri Lumiere

Quando e come nasce il progetto Lumiere (la scintilla, chi erano gli attori iniziali, i fautori)?

Stiamo parlando di diversi anni fa, per cui ricordare chi fossero gli attori richiede uno sforzo di memoria che alla mia età forse non è così semplice.
Quello che posso dire è il contesto in cui è nata Lumiere. Era un periodo nel quale avevo iniziato a lavorare con Foscarini su una sorta di cambiamento dell’azienda. Mi avevano chiamato per una regia generale, che poteva essere una specie di direzione artistica della nuova collezione, perché la loro intenzione era di cambiare l’impostazione dell’azienda.
Foscarini era una azienda pseudomuranese, nel senso che risiedeva a Murano ma aveva una mentalità non esclusivamente muranese. Abbiamo iniziato a lavorare su questo concetto: conservare l’identità dell’azienda (l’identità delle origini dell’azienda, quindi Murano-Vetro) ma differenziandoci rispetto all’atteggiamento delle altre aziende muranesi (cioè fornace-vetro soffiato) cercando di aggiungere al prodotto dei dettagli tecnologici che lo caratterizzassero, e rendessero Foscarini più un’azienda di “illuminazione” che di “vetro soffiato”. Questo concetto era la linea-guida per la Foscarini del futuro, all’epoca.

 

Dove viene partorita Lumiere? E cosa ha portato alla sua forma-funzione (i paletti progettuali, i materiali vetro soffiato e alluminio)?

Sulla base della linea-guida di cui ho appena parlato, abbiamo iniziato a immaginare e disegnare prodotti durante degli incontri. A uno di questi incontri, credo fossimo ancora nella vecchia sede di Murano, ho fatto uno schizzo su un foglietto, un disegno davvero piccolo su un foglio di carta che sarà stato 2×4cm: questo cappello di vetro con un treppiedi, tanto per far capire l’idea di associare vetro e fusione, e allora la fusione di alluminio era un argomento molto contemporaneo, nuovo.
Quindi l’idea di questo piccolo treppiedi con la fusione e il vetro esprimeva, più che il disegno di una lampada, un concetto più generale: “come mettere insieme due elementi che fossero la caratteristica dei prodotti futuri dell’azienda”. Questa fu, in pratica, l’intuizione.

 

Un momento che ricorda più di altri quando si parla di Lumiere (un colloquio con la committenza, una prova in azienda, il primo prototipo).

Beh, sicuramente il momento in cui Alessandro Vecchiato e Carlo Urbinati dimostrarono attenzione per il mio schizzo, per l’intuizione. Ricordo che Sandro diede un occhio al disegno e disse: “Bella, dovremmo farla”. In quello schizzo è stato subito intravisto il prodotto. E anch’io pensavo che quel disegno potesse diventare un prodotto vero e proprio. Da lì è nata Lumiere.

 

Viviamo in una società “brucia&getta”. Cosa si prova ad avere progettato un successo che dura da 25 anni?

Erano decisamente momenti differenti. Prima, quando si progettava, le considerazioni che le aziende facevano erano anche in termini di investimento, e di ammortamento nel tempo dell’investimento. Quindi le cose che si disegnavano erano più ponderate.
Adesso non è che siano cambiate le aziende, è cambiato il mercato, è cambiato l’atteggiamento delconsumatore, che è diventato più “volubile”. Il consumatore di oggi è abituato da altri settori merceologici (vedi moda e tecnologia) a non desiderare cose “durature”. Quindi anche le aspettative che le aziende hanno nei confronti del prodotto sono sicuramente più brevi. Quando succede che un prodotto (come Lumiere) vive per così tanto tempo in termini di vendibilità, vuol dire che è autosufficiente. Si tratta cioè di un prodotto che non ha badato necessariamente alle tendenze, al momento. E proprio per questo, in qualche modo, attira. E stimola piacere. Sia in chi l’acquista sia in chi l’ha progettato.
Personalmente mi fa piacere che Lumiere sia un “segno” che ha ancora una sua riconoscibilità e una sua attrattiva!

 

In che modo questo contesto ha “lasciato il segno”, se lo ha fatto, sulla pelle e nella mente di Rodolfo Dordoni, uomo e architetto?

Penso a due momenti importanti che hanno segnato il mio lavoro. Il primo è l’incontro con Giulio Cappellini, che è stato mio compagno di Università. In seguito, sono stato io suo compagno di lavoro, nel senso che una volta finita l’Università mi ha chiesto di lavorare in azienda con lui. Grazie a questo incontro ho potuto conoscere il mondo del design “da dentro”. Per 10 anni ho lavorato e conosciuto il settore dell’arredamento in tutti i suoi aspetti. La mia è quindi un’impostazione che conosce “nella pratica” tutta la filiera del prodotto design.
Questo porta direttamente al secondo dei miei momenti importanti.
Grazie a questa “pratica”, a questa mia conoscenza sul campo, quando le aziende si rivolgono a me sanno che non è solo un prodotto ciò che stanno chiedendo, ma un ragionamento. E spesso capita che questo ragionamento porti a costruire con le aziende dei rapporti che diventano lunghi confronti, lunghe conversazioni. Queste chiacchierate aiutano a conoscere l’azienda. E la conoscenza dell’azienda è una parte fondamentale nell’analisi del progetto. Mi piace lavorare, e in questo sono un po’ viziato, con persone con cui condivido una sorta di similitudine d’intenti e di obiettivi da raggiungere. Così si ha la possibilità di crescere insieme.

 

Anni ’90: “googlando” compaiono le Spice Girls, i Take That e il Jovanotti di “È qui la festa?”, ma anche “Nevermind” dei Nirvana e il brano degli Underworld che faceva da colonna sonora al fi lm Trainspotting, “Born Slippy”. Se pensa ai suoi anni ’90 cosa le viene in mente?

Gli anni Novanta sono stati per me l’inizio di una progressiva incomprensione tecnologica. Vale a dire che tutto quello che è successo dall’LP musicale in poi, tecnologicamente parlando, io ho cominciato a non capirlo più. Mi sono ritrovato spesso a pensare che, quando ero ragazzo, criticavo spesso mio padre che consideravo tecnologicamente inadeguato. Bene, il suo essere inadeguato rispetto a me era minimo, se penso alla mia “inadeguatezza tecnologica” rispetto ai miei nipoti, per esempio. Diciamo che negli anni Novanta ha avuto inizio il mio “isolamento tecnologico”!

 

Cos’è rimasto immutato per Rodolfo Dordoni progettista?

Il disegno. Lo schizzo. Il tratto.

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