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Nella nuova serie per What’s in a Lamp?, Giona Maiarelli celebra l’iconicità delle lampade Foscarini intrecciando la cultura italiana e quella americana in collage che danno nuovi significati agli oggetti, combinando immagini tratte da vecchie riviste, libri e fotografie d’epoca, reinterpretate attraverso memoria e fantasia.

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Artista, graphic designer e curatore, Giona Maiarelli, nato in Italia e residente negli Stati Uniti da oltre venticinque anni, incarna un ponte creativo tra due culture. La sua produzione artistica si concentra sul collage, una forma espressiva profondamente legata alla casualità e alla serendipità, in cui combina intuizione, tattilità con una sensibilità estetica che è un tributo alla capacità dell’arte di creare connessioni inaspettate.

Nella sua serie per What’s in a Lamp? Giona Maiarelli ha creato una serie di collage che intrecciano la cultura italiana ad un’affascinante esplorazione dell’immaginario collettivo americano. Al centro di queste opere, alcune lampade iconiche di Foscarini – tra cui Aplomb, Binic, Caboche, Chouchin, Nuée e Spokes – si fondono con immagini tratte da vecchie riviste, libri e fotografie d’epoca per creare composizioni originali, in un dialogo visivo che esalta le qualità estetiche di ogni lampada, collocandola nel contesto del mito americano con accenti talvolta ironici, talvolta romantici.

“Il mio obiettivo era esplorare la tensione tra la raffinata estetica italiana delle lampade Foscarini e la pragmatica ruvidezza del paesaggio americano,” racconta Maiarelli. Nella sua interpretazione artistica Caboche diventa un gioiello circolare accostato ai serbatoi d’acqua americani, mentre Spokes, con i suoi raggi, rimanda ai caotici fili dell’elettricità su cui si poggiano gli uccelli. Chouchin, invece, si trasforma in un oggetto volante, un riferimento alla fascinazione americana per i fenomeni extraterrestri. Ogni lampada diventa quindi protagonista di un racconto visivo che mescola design e narrazione, estetica e immaginazione.

Scopri di più sulla collaborazione con Giona Maiarelli e la serie completa sul canale Instagram @foscarinilamps, e ed esplora tutte le opere del progetto What’s in a Lamp?, dove artisti internazionali sono chiamati a interpretare la luce e le lampade Foscarini.

Ciao Giona, puoi raccontarci qualcosa del tuo percorso artistico? Come sei arrivato ad abbracciare l’arte del collage e cosa rappresenta per te questa forma espressiva?

Agli inizi della mia carriera di graphic designer amavo riciclare in un collage gli scarti di carte e cartoncini usati nelle presentazioni. Intravedevo delle possibilità espressive nei rifiuti del mio lavoro. Poi una lunga pausa dedicata alla professione, sempre però attratto dal Dadaismo e dal collage, in particolare quelli dell’artista e poeta Jiří Kolář. Infine nel 2016 la decisione di ridedicarmi alla mia passione.

“Ritrovare” il collage a distanza di anni ha significato riscoprire il piacere di creare con le mani che, facendo da tramite tra la mente ed il foglio, diventano parti attive nella creazione. Ritagli di carta si muovono sul cartoncino, l’intuizione diventa azione, fino a quando la composizione si rivela. Ma il ciclo non è completo fino a quando il collage non viene visto da uno spettatore. È solo quando vedo il collage attraverso gli occhi di una altra persona che il ciclo si conclude.

 

Il tuo approccio al collage è immediatamente riconoscibile e unico. Come descriveresti il tuo stile? Quali sono gli elementi distintivi che lo caratterizzano?

Il caso ha un ruolo fondamentale nelle mie composizioni: anche quando intendo comunicare un’idea specifica, il collage si rifiuta di essere accondiscendente e mi rivela possibilità espressive e compositive che non avevo considerato. Poi c’è il piacere della sorpresa: trovare un libro da cui asportare immagini in una libreria dell’usato, scoprire potenziale in immagini che avevo inizialmente scartato, la sorpresa, infine, di una composizione che si rivela casualmente sulla pagina. Ogni serie di collage ha un tema di partenza, ma l’istinto gioca una parte indispensabile.

 

Da dove nasce la tua ispirazione?

L’ispirazione nasce parallelamente al lavoro. Quando comincio una serie di collage non ho un’idea in mente, solo il materiale con cui ho deciso di lavorare, scelto sulla base di una intuizione. Dopo qualche ora, o a volte qualche giorno, le idee emergono da sole attraverso il lavoro stesso.

 

Cosa ti attrae maggiormente della realtà che ti circonda e come traduci queste suggestioni nei tuoi lavori?

La maggior parte delle serie di collage che ho prodotto sono indagini sul mio personale immaginario americano: i paesaggi dell’ovest degli Stati Uniti, l’architettura modernista dei grattacieli del dopoguerra a New York e le case Case Study californiane, la Hollywood del passato, le pagine del New York Times. Forse inconsciamente sto metabolizzando la mia decisione di trasferirmi negli Stati Uniti, riappropriandomi di immagini che erano presenti nel mio inconscio.

 

Nel progetto “What’s in a lamp?” per Foscarini, hai creato composizioni che associano le lampade a immagini evocative, talvolta ironiche, talvolta poetiche. Puoi svelarci l’ispirazione e il processo creativo dietro a questo lavoro?

Per “What’s in a lamp” ho voluto collocare le lampade di Foscarini in un contesto americano. Mi sembrava la scelta più ovvia dovuta al fatto che risiedo negli Stati Uniti e il patrimonio visivo americano fa parte del mio vocabolario artistico.

 

In questa serie emerge infatti molto chiaramente il dialogo tra le due culture, quella italiana e quella americana. Come queste due realtà si incontrano e si fondono nelle tue composizioni?

Il mio obbiettivo era quello di esplorare la tensione tra la raffinata estetica italiana delle lampade di Foscarini e la pragmatica ruvidezza del paesaggio americano, giocando con le dimensioni ed il contrasto tra le immagini a colori dei prodotti e le immagini in bianco e nero dei paesaggi. Alla fine questi due mondi, così apparentemente distanti, si sono sciolti in un abbraccio, a volte ironico e a volte poetico.

Quali elementi specifici dell’immaginario collettivo americano hai portato nei collage creati per “What’s in a lamp?”?

La forma e il materiale delle varie lampade hanno suggerito delle strade. Caboche si è presentata come un prezioso monile circolare da sposare con un austero elemento del paesaggio americano quali i serbatoi d’acqua. Aplomb si è inserita sul viso dell’uomo americano “ideale”, creato combinando i ritratti di 5 presidenti americani, sostituendo la sua apertura luminosa a un telegenico sorriso. Spokes, con i suoi raggi filiformi, rimanda ai caotici fili dell’elettricità che si aggrovigliano nei cieli americani, da cui gli uccelli ci osservano, e non manca di ricordarci la sua vocazione di elegante voliera. Binic, mi ha ricordato una luminosa luna piena e mi ha spinto verso le immagini legate all’esplorazione americana del nostro satellite. Sapevo fin dall’inizio che almeno una delle lampade sarebbe diventata un oggetto volante, fenomeno tipicamente americano e fonte di ingenue teorie cospiratorie. Questa sorte è toccata a Chouchin, lucente e tecnicamente esemplare, come immagino possa essere un oggetto volante proveniente da una civiltà più evoluta della nostra, che coglie di sorpresa dei passanti. Nuee è una nuvola leggiadra che intercetta la nostra spericolata tuffatrice e la accompagna in un viaggio magico.

 

Quali artisti o influenze hanno maggiormente contribuito alla formazione della tua visione artistica? Chi consideri i tuoi maestri?

L’artista e poeta ceco Jiří Kolář, che ho citato prima, ha avuto una grande influenza sul mio lavoro. E poi l’attitudine scanzonata dei movimenti Dada e Futurista.

 

Hai una ritualità o segui particolari abitudini quando lavori ai tuoi collage?

Musica, sempre.

 

Cos’è per te la creatività?

Il mio mentore, Milton Glaser, diceva che la creatività non esiste; esiste solo l’immaginazione. La creatività non è altro che la facoltà di immaginare, e poi creare, mondi che ancora non esistono.

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Bennet Pimpinella porta la sua arte cinematografica nel progetto What’s in a Lamp? e utilizzando la tecnica del graffio sulla pellicola rende le lampade Foscarini simboli di emozioni e ricordi in scene intime dall’atmosfera surreale e underground.

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Bennet Pimpinella non è estraneo alla sperimentazione. Nato nel 1977 e formatosi in cinema all’Accademia dell’Aquila, Pimpinella ha trascorso la sua carriera sfumando i confini tra analogico e digitale, sempre alla ricerca di ridefinire la relazione tra luce e immagine. Il suo stile è inconfondibile: un linguaggio visivo che mescola ricerca, artigianalità e un profondo legame con il mezzo cinematografico. La tecnica del graffio sulla pellicola è la sua firma, un segno in cui si traduce tutto il processo creativo con la sua intensità, le sue imperfezioni, e quel tratto vigoroso e istintivo che nasce dal contatto diretto con la celluloide. I suoi lavori si distinguono per un’estetica grezza, carica di energia e sensibilità, che trascina lo spettatore in un universo ricco di emozioni intense, riflesso del sentire dell’autore nell’istante della creazione artistica.

Nella sua collaborazione con Foscarini per il progetto What’s in a Lamp?, Pimpinella porta la sua capacità di manipolare la pellicola a un nuovo livello, rendendo la luce la protagonista assoluta delle sue opere.

“Ciascuno dei sei film prodotti per Foscarini è unico, ma sono tutti legati da un’atmosfera intima e affettiva. Le lampade Foscarini si integrano in questo racconto, divenendo simboli di emozioni e ricordi, parte integrante di una narrazione silenziosa ma profonda. Ho voluto fondere la materialità della pellicola graffiata e colorata con il surreale, creando un dialogo tra luce e ombra che racconta storie silenziose ma potenti.”

Bennet Pimpinella
/ Artista e regista

La colonna sonora – realizzata con il compositore Carmine Calia – non si limita a seguire le immagini, ma le modella e le arricchisce di significati. La luce e le forme nelle opere di Pimpinella assumono così una nuova dimensione emotiva, vengono amplificate dalla musica, creando una connessione intensa con lo spettatore.

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Raccontaci qualcosa di te: hai sempre saputo che volevi fare l’artista? Come è iniziato il tuo viaggio nel mondo del cinema e della sperimentazione artistica?

Non ho mai immaginato di poter vivere facendo l’artista, nonostante fossi cresciuto in un ambiente pervaso d’arte. Mio padre, pittore e scultore, e mia madre, ritrattista, mi hanno sempre trasmesso la passione per il disegno e la pittura, ma per me era una dimensione intima, qualcosa che faceva parte della quotidianità senza però pensare che potesse diventare il mio percorso di vita.

Dopo un’esperienza scolastica come geometra, che sentivo repressiva rispetto alle mie inclinazioni, ho deciso di iscrivermi all’Accademia Internazionale delle Scienze e delle Arti dell’Immagine. È stato un cambiamento radicale: mi sono immerso in un mondo completamente nuovo, quello del cinema, scoprendo una forma espressiva che ha trasformato la mia visione dell’arte.

Non più statica, bensì in movimento.

Ho avuto la fortuna di incontrare grandi maestri, tra cui Vittorio Storaro, una figura fondamentale per il mio percorso. Dopo l’Accademia, ho avuto l’onore di far parte del suo team per dieci anni, un’esperienza che mi ha formato profondamente.

Il mio ruolo era quello di assistente operatore e il mio compito era caricare e scaricare la pellicola nelle macchine da presa in 35mm.

Proprio lì imparai sia a maneggiare sia a prendermi cura della pellicola. È stato in quel periodo che trovai il mio spazio, apprendendo i fondamenti della tecnica e dell’estetica cinematografica.

Quegli anni sono stati una scuola di disciplina, tecnica e soprattutto di amore per la ricerca della bellezza nell’immagine. Ancora oggi, porto con me quegli insegnamenti e sono grato al Maestro Storaro e a tutta la squadra per avermi trasmesso una passione che continua a guidarmi ogni giorno.

 

Cosa ti motiva a creare e da dove nasce la tua ispirazione: dalla curiosità, dalla ricerca di significato o dall’espressione visiva pura?

Creare è il mio modo di esprimermi, come per altri potrebbe essere scrivere, suonare o cantare. Per me è qualcosa di naturale, quasi di istintivo, è una necessità, una cura per ogni mio disagio interiore. La mia tecnica e il mio lavoro diventano il mezzo per elaborare ciò che vivo e sento.
Il mio approccio è fondamentalmente sperimentale: parto da un gesto, da un segno, cercando ogni volta qualcosa di nuovo, ma al tempo stesso riconoscibile. La mia ispirazione non ha una fonte unica: attingo da tutto ciò che mi circonda e che attraversa i miei sensi. Può essere il blu del mare, una giornata grigia, una notizia di cronaca, la perdita di una persona cara o una melodia che mi cattura. Ogni esperienza, ogni emozione, si trasforma in un segno, in una forma. Potrei continuare all’infinito, perché tutto ciò che mi colpisce ha il potenziale di diventare parte del mio processo creativo.

 

Il tuo cinema è sorprendente e unico. Come descriveresti il tuo stile e come hai sviluppato questa estetica distintiva?

Durante il periodo all’Accademia ho esplorato tutte le forme di narrazione cinematografica, fino a quando ho realizzato il mio primo lavoro di animazione in stop motion. Quel primo progetto ha acceso in me una scintilla, spingendomi a immergermi completamente nel mondo dell’animazione. Ho acquistato libri, studiato tecniche e sperimentato, cercando di replicare metodi innovativi: dallo schermo di spilli di Alexandre Alexeïeff, al vetro retroilluminato, fino al motion painting di Oskar Fischinger e allo stop motion di Jan Švankmajer. Ogni nuova scoperta alimentava la mia curiosità.

La svolta decisiva è arrivata con la scoperta del cinema diretto, senza macchina da presa, di Stan Brakhage. Da quel momento, ho cominciato a sperimentare con il Super 8, graffiando, colorando e intervenendo direttamente sulla pellicola. Il momento più magico per me era la proiezione: usare un proiettore casalingo, sentire il rumore meccanico del motore che trascinava la pellicola, l’odore delle cinghie, la polvere che danzava nella luce della lampada… È stata un’esperienza che mi ha rapito l’anima. Ricordo ancora la prima volta che proiettai uno dei miei lavori: capii subito che quella tecnica sarebbe diventata il mio linguaggio.

Ora, dopo 25 anni, continuo a provare la stessa emozione, lo stesso senso di meraviglia ogni volta che la luce si accende e l’immagine prende vita. Il mio stile nasce da questo intreccio tra sperimentazione, artigianalità e un profondo legame con il mezzo fisico del cinema, che ancora oggi è alla base di tutto ciò che creo.

Hai trovato un equilibrio fra l’analogico e il digitale, ma il tuo lavoro inizia sempre con la pellicola. Quale processo segui per creare i tuoi videoclip? Siamo molto curiosi di capire quale sia la tua tecnica, gli strumenti che usi, e il tuo metodo di lavoro.

Ogni progetto inizia con una scelta fondamentale: il supporto. Decido se filmare del materiale nuovo e una volta sviluppato, ottenere il positivo su cui graffiare e intervenire, oppure se lavorare con la tecnica del found footage, utilizzando pellicole esistenti da manipolare. La scelta della pellicola è cruciale e dipende dal tipo di lavoro che sto realizzando. Esistono molte variabili: il formato, le perforazioni, il fatto che la pellicola sia già impressa o ancora non esposta. Anche il marchio e l’età dell’emulsione sono importanti, poiché influenzano il tipo di graffio che si otterrà – in termini di colore, profondità e linea. Ogni dettaglio conta nella creazione del risultato finale. Una volta selezionata la pellicola, inizia il vero e proprio lavoro, che richiede una dose immensa di pazienza e dedizione. È un processo che ti costringe a isolarti, come se il tempo si fermasse. Per un solo minuto di animazione possono volerci anche settimane. La meticolosità è essenziale.

Nel mio cinema diretto utilizzo una vasta gamma di tecniche, e ogni segno ha il suo strumento dedicato. Per graffiare la pellicola, ad esempio, uso punteruoli, aghi, kit da dentista, frese elettriche e Dremel. Ma non si tratta solo di graffiare: taglio, incollo e coloro utilizzando ogni tipo di materiale disponibile. I colori variano dai pigmenti per vetro, agli inchiostri a base d’acqua, fino ai colori indelebili. Il mio obiettivo è sempre quello di sfruttare al massimo ciò che il mercato offre, mantenendo la creatività al centro del processo.

Un elemento importante del mio lavoro è la collezione di trasferibili che ho accumulato negli ultimi vent’anni. Ne ho di ogni tipo e marca, e questo mi permette di esplorare infinite possibilità creative quando intervengo sulla pellicola. Ogni dettaglio del mio lavoro nasce da una combinazione di tecnica, sperimentazione e dalla volontà di spingere sempre un po’ oltre i confini del materiale.

 

Come è nata la collaborazione con Foscarini? Cosa ti ha motivato in questo lavoro?

Quando Foscarini mi ha proposto di collaborare, non ci ho pensato due volte. Ricordo ancora l’entusiasmo con cui ho detto subito sì. Essere scelto da un marchio che ammiro, e al tempo stesso avere la libertà creativa completa, è stato un forte stimolo per me. Ho visto l’opportunità di esplorare nuove idee, cercando di creare qualcosa che fosse in sintonia con il loro mondo, ma che allo stesso tempo portasse la mia impronta personale.

Ogni volta che mi viene concessa carta bianca, mi sento spinto a superare me stesso, a sperimentare, e a cercare soluzioni visive che siano sorprendenti e capaci di trasmettere emozioni. Volevo creare un’atmosfera che rispecchiasse l’essenza di Foscarini, ma che al tempo stesso portasse un tocco unico e inaspettato, capace di emozionare tanto me quanto il pubblico. Questo tipo di sfida, unire la mia visione con la loro, è stato il motore principale di questo progetto.

 

Nel progetto “What’s in a lamp?” di Foscarini, hai trasformato frammenti di un film graffiando la pellicola, aggiungendo colori e rendendo le lampade Foscarini parte della scena in modo surreale e underground. Potresti raccontarci l’ispirazione e il significato che ti hanno guidato nella creazione di questa serie?

Per il progetto “What’s in a lamp?”, ho cercato di creare una connessione profonda tra luce e vita. Quando ho iniziato a immaginare il progetto, ho fatto un gesto semplice, ma simbolico: ho spento tutte le luci di casa. Poi, una alla volta, ho iniziato ad accenderle, cercando quell’atmosfera perfetta che potesse aprire una via creativa. La luce è diventata la mia guida, e da lì è nata l’ispirazione per i sei minifilm che ho creato.

Ogni film è unico, distinto per colore e tecnica, ma sono tutti legati da un’atmosfera intima e affettiva. Ho voluto raccontare qualcosa che fosse universale, dove la luce non fosse solo un elemento fisico, ma la protagonista stessa: un riflesso della vita di ognuno di noi. Le lampade Foscarini sono diventate parte integrante di questa narrazione, trasformandosi in simboli di emozioni, ricordi e momenti di vita vissuta. Ho voluto fondere la materialità della pellicola graffiata e colorata con il surreale, creando un dialogo tra luce e ombra che raccontasse storie silenziose ma potenti.

 

C’è un film della serie che preferisci o che per qualche ragione ti è più caro?

Non ho un film preferito in senso assoluto, ma c’è una scena che mi è particolarmente cara: l’inquadratura iniziale di Spokes. In quel momento si concentra tutta l’intimità e il calore che solo un abbraccio può trasmettere. Il bagliore aranciato emesso dalla lampada Spokes invade dolcemente la stanza, avvolgendo i protagonisti in una luce che non è solo fisica, ma emotiva. È come se quella luce si prendesse cura di loro, proteggendoli dall’oscurità circostante. È una scena che parla di connessione, di protezione, di quel calore umano che va oltre le parole, ed è questo che la rende così speciale per me.

 

I graffi sulla pellicola esprimono tutta la passione e l’intensità con cui vivi la tua arte. Come si riflette la tua individualità nei tuoi lavori? Hai una ritualità quando crei le tue opere?

I graffi sulla pellicola sono, per me, come una firma , un’impronta che racchiude tutto il processo creativo con la sua intensità, le sue imperfezioni, e quel tratto vigoroso e istintivo che nasce dal contatto diretto con la celluloide. Ogni graffio, ogni segno è un riflesso di un preciso momento della mia vita e del mio stato d’animo in quell’istante. È come se il film stesso portasse con sé una parte di me, del mio vissuto. Non seguo un rituale rigido quando creo, ma mi affido molto all’istinto e al flusso del momento. Tuttavia, ho delle piccole abitudini che mi aiutano a entrare nel giusto stato mentale. Ricerco la solitudine, ascolto musica che mi ispira e mi immergo in un certo tipo di luce, che possa creare l’atmosfera ideale per il viaggio che sto per intraprendere. Ogni creazione è un viaggio interiore, e queste abitudini mi aiutano a sintonizzarmi con le emozioni che desidero far emergere nel mio lavoro.

 

Qual è il ruolo della luce nella tua arte?

La luce è il cuore pulsante del mio lavoro, senza di essa tutto rimarrebbe invisibile. È la luce che dà vita ai segni incisi sulla pellicola, svelando forme, colori, movimenti ed emozioni. Attraverso la luce, ciò che è nascosto nella materia emerge, trasformandosi in immagine e diventando narrazione. È un elemento essenziale, un ponte tra il mio gesto creativo e lo sguardo dello spettatore.  È la luce che completa l’opera, rendendo visibile ciò che altrimenti rimarrebbe imprigionato nella pellicola.

 

Che importanza ha la musica nella tua videoarte, e in particolare nella serie “What’s in a lamp?”? 

Nella serie What’s in a lamp?,  ho chiesto al compositore Carmine Calia di immergersi in questo viaggio insieme a me. Il Maestro Calia ha creato una colonna sonora indimenticabile, capace di trasformarsi in un vero e proprio personaggio all’interno della narrazione. La sua musica non si limita ad accompagnare le immagini, ma le influenza profondamente, dando forma al ritmo della storia e arricchendola di significati simbolici. In questo modo, la luce e le forme presenti in scena acquistano una nuova profondità emotiva. La musica diventa così una componente essenziale, capace di creare una connessione intensa con lo spettatore, amplificando le sensazioni e i temi che voglio esprimere.

 

Hai degli artisti di riferimento, maestri o influenze significative nella formazione della tua visione artistica?

Penso che la mia più grande influenza venga da mio padre. Fin da bambino sono cresciuto osservandolo dipingere, e ogni volta che parlava della sua arte, i suoi occhi si illuminavano. Questo mi riempiva di gioia e ha instillato in me un profondo amore per la creatività. Da adulto, invece, ho avuto la fortuna di lavorare con il maestro del cinema italiano, Vittorio Storaro. Vederlo all’opera è stata una delle esperienze più straordinarie della mia vita. Da lui ho imparato l’importanza della ricerca della bellezza nell’immagine, una lezione che ha plasmato profondamente il mio percorso artistico.

 

Come coltivi la tua creatività?

Coltivo la mia creatività attraverso un costante processo di sperimentazione, vivendo da eremita in casa, come fosse la mia tana. Aggiungere continuamente qualcosa alla tecnica o anche toglierlo è ciò che mi spinge a cercare qualcosa di diverso ma  cercando sempre di avere un segno sicuro e inimitabile. Questo desiderio di evoluzione e ricerca costante è il motore che mi sprona a coltivare il mio lavoro.

 

Come definiresti la creatività? Cosa significa per te essere creativo?    

Per me, la creatività è libertà. La creatività è quel flusso continuo che mi permette di vedere il mondo da prospettive diverse e di esprimermi in modi unici, cercando sempre di superare i miei limiti.

Scopri di più sulla collaborazione con Bennet Pimpinella e la serie completa sul canale Instagram @foscarinilamps, ed esplora tutte le opere del progetto What’s in a Lamp?, dove artisti internazionali sono chiamati a interpretare la luce e le lampade Foscarini.

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Nelle illustrazioni di Mattia Riami per il progetto editoriale “What’s in a lamp?” le lampade Foscarini si trasformano in elementi magici che con un tocco di surrealismo e fantasia sovvertono la prospettiva, portando stupore e meraviglia nella vita di tutti i giorni.

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Fin da bambino, Mattia Riami ha mostrato un’innata passione per il disegno e le arti figurative, perfezionando la sua tecnica durante gli studi alla Scuola d’Arte di Venezia e allo IED di Milano. Le sue opere si distinguono per un tratto “veloce, nichilista e nervoso”, accompagnato da un uso raffinato del colore che evoca le palette calde e nostalgiche delle pubblicità vintage degli anni quaranta e cinquanta.

Nella sua serie per il progetto editoriale di Foscarini “What’s in a lamp?” – in cui artisti, designer e creativi sono chiamati a interpretare la luce attraverso le lampade Foscarini – Mattia Riami esplora la vita quotidiana attraverso sei illustrazioni che raccontano scene di ordinaria familiarità. C’è sempre, però, un dettaglio inaspettato che ribalta la prospettiva: le lampade Foscarini si trasformano in altro – nuvole, astronavi, trombe – e diventano l’elemento di svolta che rende l’ordinario straordinario, creando un’atmosfera di libertà e spensieratezza che invita a riscoprire il mondo con occhi nuovi.

“Volevo trasmettere un senso di quotidianità e trasformare, attraverso il gioco, le lampade in oggetti diversi da ciò che sono. Mi sono lasciato ispirare dalle loro forme e ho cercato di tornare bambino! Ci ho visto delle nuvole, un’astronave, una tromba, una mazza da baseball e molto altro ancora, avrei potuto continuare questo gioco all’infinito.”

Mattia Riami
/ Artista

Visioni familiari e oniriche allo stesso tempo, che rivelano in modo inaspettato e originale il potere trasformativo delle lampade Foscarini. Oggetti che vanno oltre la semplice funzione, raccontano storie di vita e interpretano desideri ed emozioni, trasformando ogni spazio in un ambiente che riflette la personalità di chi le sceglie.

Scopri la serie completa di Mattia Riami per “What’s in a lamp?” su Instagram @foscarinilamps e approfondisci la sua visione artistica nella nostra intervista.

Com’è iniziata la tua avventura artistica? Hai sempre saputo che l’arte sarebbe stata il tuo percorso?

Sì, sono stato molto fortunato in questo; ho sempre disegnato, fin da bambino. Disegnavo senza sapere che sarebbe diventato il mio lavoro, il mio modo di stare al mondo ed esprimermi, semplicemente disegnavo. Disegnavo i personaggi della Disney, copiavo le figure dei libri illustrati e realizzavo i miei prototipi di libri, pinzando con la graffettatrice una decina di fogli A4 bianchi in cui avevo impostato la mia storia. Più crescevo, più prendevo consapevolezza che potesse diventare una cosa seria, e così ho dedicato i miei studi alle arti visive, trasformando quei giochi nel mio lavoro.

 

Cosa ti motiva a creare e da dove nasce la tua ispirazione: dalla curiosità, dalla ricerca di significato o dall’espressione visiva pura?

Devo dire che l’espressione visiva pura mi attira e condiziona moltissimo. Nella vita di tutti i giorni sono catturato da molti stimoli visivi; disegni, illustrazioni, quadri o manifesti e chi più ne ha più ne metta, e ciò influisce sul desiderio di disegnare semplicemente per esprimere delle forme e colori che nascono dentro di me. In fase progettuale, però, tutte queste forme prendono significato e mi piace quindi costruire una storia alla base di ogni progetto, come ho fatto per “What’s in a Lamp?”.

 

Il tuo tratto grafico è riconoscibile e distintivo. Come descriveresti il tuo stile e come si è evoluto nel tempo?

Lo descriverei con alcune delle parole di altri in cui mi ritrovo molto e che lo hanno descritto per me: “Un segno veloce, nichilista e nervoso.” Confermo, ho sempre un rapporto molto fisico con il mio lavoro, che sia su carta o con pennelli digitali. Utilizzo energeticamente le matite sul foglio, a volte arrivando a forarlo per errore, o a temere di rovinare lo schermo. Mi piace si percepisca il tragitto che la mia mano ha compiuto per tracciare quella linea e sento una forza misteriosa che mi spinge a tracciarla esattamente così o a colorare in quel modo. Sono stato condizionato sicuramente anche dai miei professori dello IED di Milano, penso che il mio approccio sia sempre stato di questo tipo, ma si è affinato nel tempo grazie allo studio e alla ricerca.

 

In questa serie hai descritto scene di familiare quotidianità, soprattutto domestiche, dove le lampade diventano un elemento di svolta che in modo quasi magico trasforma la percezione della scena, dando vita a nuove interpretazioni, inaspettate e surreali. Puoi raccontarci di più sull’ispirazione dietro questo lavoro?

Certamente, è stata la parte più bella! Volevo trasmettere un senso di quotidianità e trasformare, attraverso il gioco, le lampade in oggetti diversi da ciò che sono, come se i protagonisti delle illustrazioni si sorprendessero a scoprire che quella lampada ricorda un altro oggetto o un altro utilizzo. Come facevamo da bambini, quando prendendo il tubo della carta da cucina finita lo utilizzavamo come cannocchiale o come megafono. Per fare ciò mi sono lasciato ispirare dalle forme delle lampade e ho cercato di tornare bambino! Ecco, quindi, che ci ho visto delle nuvole, un’astronave, una tromba, una mazza da baseball e molto altro ancora; avrei potuto continuare questo gioco all’infinito.

 

Quali sono le illustrazioni che preferisci in questa serie e perché?

La mia preferita in assoluto è NUEE, perché penso che il connubio tra surreale e realtà che cercavo lì sia riuscito alla perfezione. Amo molto anche MITE per lo stesso motivo e LE SOLEIL per l’atmosfera di libertà e spensieratezza.

È sorprendente come, con pochi tratti, le tue illustrazioni riescano a raccontare intere storie, vite, situazioni ed emozioni. Puoi approfondire l’aspetto narrativo del tuo processo creativo?

Istintivamente utilizzo sempre la figura umana nel mio lavoro; è raro che realizzi un paesaggio senza persone o soggetti diversi. L’essere umano diventa quindi protagonista delle mie opere e i suoi sentimenti sono le fondamenta da cui parto per raccontare. Attraverso i protagonisti possiamo leggere e intuire ciò che sta succedendo, quale sia la storia, la situazione e gli avvenimenti che la caratterizzano. Penso all’illustrazione per la lampada TOBIA, in cui vediamo una coppia che si è appena trasferita ed inizia a disfare i pacchi, con la gioia e l’emozione di una nuova casa, con la lampada che viene presa e usata a mo’ di tromba per l’euforia del momento. Ma potrebbe benissimo non essere un trasloco, ma semplici nuovi acquisti per la casa; l’atmosfera è la stessa e lo spettatore vede ciò che più si avvicina alla sua esperienza.

 

Cosa ti incuriosisce maggiormente nella realtà che ti circonda?

È difficile rispondere; sicuramente la natura, che vorrei conoscere ed esplorare di più, la forma delle piante, delle foglie e dei fiori, le nuvole, sono vere architetture o opere di design naturali. Poi sono sempre incuriosito ed attratto da tutta la comunicazione visiva in generale: il mio occhio cade sempre su manifesti, copertine di libri e tutto ciò che è visivo. Scatto molte foto col cellulare come promemoria per poi andarmi a studiare con calma ciò che mi ha catturato.

 

Come descriveresti il tuo rapporto con il colore nel lavoro da illustratore? Cosa ha guidato la scelta dei colori in questa serie per “What’s in a lamp?”

Il mio rapporto con il colore è rinato negli ultimi anni. Tempo fa, dopo i miei studi, disegnavo soprattutto in bianco e nero, aggiungendo di tanto in tanto pochi tocchi di colore. Sicuramente l’influenza delle moltissime illustrazioni colorate che vedevo attorno a me ha acceso il desiderio di colorare anche le mie. Penso di essere stato condizionato anche dallo splendido lavoro di Jean-Charles de Castelbajac, maestro assoluto, che è stato mio direttore artistico per più di due anni. Impazzisco per le vecchie pubblicità illustrate degli anni ’50; ho sempre amato lo stile di quell’epoca, anche degli anni ’40, ed ho sempre guardato film in bianco e nero di quel periodo. Amo le mani che fumano sigarette bianche, gli abiti, i cappelli, la moda di quei tempi, tutto. Questo ha condizionato il mio modo di disegnare i personaggi, sia maschili che femminili, ovviamente in chiave attuale e moderna, ma con un tocco di quel passato. La palette colori che ho utilizzato per “What’s in a lamp?” si rifà a quelle vecchie pubblicità; ho studiato delle tonalità che restituissero anche un certo calore.

 

Oltre alle fonti di ispirazione di cui ci hai parlato, ci sono dei maestri che hanno influenzato più di altri la tua visione artistica?

Parlando di grandi maestri, penso ad Egon Schiele, Picasso e Jean-Michel Basquiat soprattutto, anche Keith Haring, che è uno dei miei miti assoluti per la sua personalità più che per lo stile, per arrivare ad artisti più contemporanei come Marlene Dumas. Mi hanno influenzato molto però anche i fumetti, specialmente le graphic novel, e illustratori come Adelchi Galloni, che è stato mio insegnante allo IED di Milano.

 

Hai una ritualità nel disegnare? Segui particolari abitudini o processi quando lavori alle tue illustrazioni?

Il mio metodo consiste in una ricerca iniziale e riflessione su quello che vuole essere la finalità del progetto. In questo modo nascono le primissime idee che scrivo o abbozzo velocissime a penna su diari che tengo, davvero schizzi quasi incomprensibili, solo per mettere giù l’idea. Poi passo a delle bozze più elaborate ed infine al definitivo. La storia la costruisco nelle prime due fasi.

 

Cos’è per te la creatività?

Penso sia la capacità di vedere il mondo in modo diverso, di immaginare possibilità oltre il comune e di trasformare idee astratte in realtà tangibili. È un processo dinamico che coinvolge l’intuizione, l’ispirazione e l’espressione personale, ma talvolta è anche disciplina e costante impegno per migliorarsi; non sempre è facile!

Scopri di più sulla collaborazione con Mattia Riami e la serie completa sul canale Instagram @foscarinilamps, ed esplora tutte le opere del progetto What’s in a Lamp?, dove artisti internazionali sono chiamati a interpretare la luce e le lampade Foscarini.

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La celebre autrice e illustratrice per bambini Antje Damm arricchisce il progetto “What’s in a Lamp?” di Foscarini con incantevoli diorami in cui le lampade sono protagoniste di narrazioni suggestive, che prendono vita all’interno di scatole di fiammiferi.

Scopri di più su “What’s in a lamp?”

Antje Damm, artista originaria di Wiesbaden, in Germania, si è affermata nel campo della letteratura e dell’illustrazione per bambini. Architetto di formazione, ha poi cambiato direzione dedicandosi alla scrittura e all’illustrazione di libri per bambini, ottenendo riconoscimenti internazionali come il “Best Illustrated Children’s Books” del New York Times / New York Public Library.

Antje porta la sua originale visione artistica nel progetto editoriale “What’s in a Lamp?” di Foscarini, creando una serie di intricati diorami all’interno di piccole scatole di fiammiferi. Piccoli mondi che affascinano per il loro carattere giocoso e spensierato e, contemporaneamente, riescono a riflettere l’anima e il carattere delle lampade Foscarini che li abitano. “Le lampade non sono semplici fonti di luce; sono oggetti fisici, scultorei, capaci di arricchire gli spazi di vita,” spiega l’artista “una buona illuminazione è essenziale in qualsiasi ambiente, e non solo per la funzionalità. È stato stimolante ed emozionante immaginare ambienti e situazioni in sintonia con ciascuna lampada, mescolando situazioni quotidiane con altre, più inaspettate e speciali.”

Nella creazione di queste scene miniaturizzate, l’artista riesce abilmente a bilanciare la libertà espressiva dell’illustrazione con un approccio sperimentale e meticoloso che richiama la sua formazione da architetto. Ogni scena è accuratamente costruita combinando tecniche come il disegno, il collage, l’intaglio su carta allo scopo di creare un’esperienza narrativa evocativa e coinvolgente. Nella sua interpretazione – ad esempio – la lampada da terra Havana trova spazio in una foresta dal sapore quasi magico, mentre Orbital diventa il punto focale di una scena domestica con il suo “design fantasioso e unico che mi ricorda le mobili cinetiche di Calder, che adoro”, spiega Antje. In un altro diorama, la sospensione Big Bang è un contrappunto dinamico e scultoreo ad un’opera d’arte esposta in una galleria.

“La sfida e la soddisfazione di questo progetto risiedono nel catturare l’essenza di ogni lampada nello spazio limitato di una scatola di fiammiferi. Ogni scena racconta una storia, evoca emozioni e trasmette il carattere unico della lampada.”

Antje Damm

Scopri tutti i diorami di Antje Damm sul profilo Instagram @foscarinilamps e immergiti nel suo affascinante percorso artistico attraverso la nostra intervista.

Ciao Antje! Raccontaci qualcosa del tuo percorso artistico, cosa ti ha spinto verso questa strada?

Il disegno e la pittura sono sempre stati il mio modo di esprimermi e riflettere su me stessa, una passione che coltivo sin da bambina. Dopo aver lavorato come architetto per diversi anni, ho iniziato a scrivere e illustrare libri per bambini circa 20 anni fa, quasi per caso. Alla fine, ho dovuto decidere dove concentrare le mie energie perché gestire entrambe le cose, specialmente con quattro figli, è diventato troppo impegnativo. Essere artista, autrice e illustratrice è il lavoro dei miei sogni. Mi permette di lavorare con grande libertà e indipendenza, esplorando costantemente nuove strade perché sono naturalmente curiosa e amo sperimentare nuove idee. Ogni libro è unico e rappresenta una sfida nuova, e interpretare visivamente un’idea comporta sempre rischi.

 

Il tuo background in architettura ha influenzato il tuo approccio alla narrazione visiva e all’illustrazione?

Fondamentalmente, sviluppare un concept architettonico e un concept per un libro presentano molte similitudini. Durante il mio periodo come architetto, ho costruito molti modelli e li ho esplorati nel dettaglio, un’esperienza che oggi applico anche ad alcune delle mie creazioni artistiche, quando costruisco ambientazioni in carta e cartoncino per poi fotografarle. È un approccio giocoso, sperimentale e libero, che mi permette di apportare facilmente modifiche, aggiustamenti e integrazioni, e focalizzare poi il risultato nella fotografia. Mi piace molto lavorare in tre dimensioni.

 

Il tuo modo di mescolare diverse tecniche artistiche è particolare e distintivo, come descriveresti il tuo stile?

Definire il mio stile è complesso perché varia a seconda del progetto. Sperimento con tecniche come il disegno, il collage e l’illustrazione digitale, adattandomi alla storia che sto raccontando. Di recente, ho esplorato l’uso degli intagli su carta per la loro natura evocativa e astratta, una caratteristica che si è rivelata perfettamente in sintonia con la storia che stavo illustrando.

 

Come è nata l’idea di usare le scatole di fiammiferi come tela?

Durante la pandemia di COVID-19, tutti i miei tour programmati per la presentazione dei libri sono stati cancellati, lasciandomi con un sacco di tempo libero. È stato allora che mi è venuta l’idea di creare questi piccoli diorami all’interno delle scatole di fiammiferi. Da subito molte persone si sono appassionate alle mie miniature e per me è divertente costruirle. È un’attività rilassante ma anche stimolante, perché è sempre una sfida raccontare una storia in uno spazio così limitato.

 

Hai una routine creativa, in che modo riesci a coltivare l’ispirazione e a superare le sfide che si presentano nel processo artistico?

Lavoro da casa, e a volte lo spazio può sembrare un po’ limitato. Per fortuna, vivo vicino a un bosco, e la natura gioca un ruolo fondamentale per stimolare la mia creatività. Trascorro molto tempo all’aria aperta, meravigliandomi dei cambiamenti delle stagioni, raccogliendo funghi e osservando piante e animali. Spesso visito mostre, alla continua ricerca di nuove idee e stimoli.

 

 

Nella tua serie per “What’s in a Lamp?” le lampade Foscarini sono protagoniste all’interno di scene di quotidianità raccontate nello spazio limitato di una scatola di fiammiferi. Come sei riuscita a inserire le lampade di Foscarini in queste piccole narrazioni e quali sfide o soddisfazioni hai incontrato?

Il design di mobili e lampade mi ha sempre affascinato ed è stato una parte significativa del mio lavoro come architetto. Amo tutte le cose belle e le lampade, in particolare, sono per me molto più di semplici fonti di luce. Sono oggetti fisici, quasi sculture, che possono davvero arricchire gli spazi in cui viviamo. Mi piace fermarmi a osservarle. Una buona illuminazione è essenziale in qualsiasi ambiente; ci accompagna e rende lo spazio funzionale, ma è molto più di questo. È stato stimolante ed emozionante immaginare ambienti e situazioni in sintonia con ciascuna lampada, mescolando scene quotidiane con momenti più inaspettati e speciali.

Cosa ti ha ispirato in questo progetto?

La sfida e la soddisfazione di questo progetto risiedono nel catturare l’essenza di ogni lampada. Che emozioni e pensieri suscita? Qual è l’ambiente ideale per esaltarla? Ad esempio, ho subito immaginato che la lampada Havana fosse perfetta in un contesto naturale, in sintonia suo fascino ancestrale.

 

Come hai scelto le lampade da inserire in queste scene in miniatura?

Ho scelto le lampade che mi hanno colpito di più. Big Bang è una scultura interessante che appare sempre diversa. Ho scelto anche una lampada piccola e simpatica, come Fleur, perché mostra l’ampio e affascinante spettro che le lampade possono coprire.

 

Hai un’opera preferita nella serie “What’s in a lamp?”?

Mi piace molto la scatola con la lampada Orbital. È la mia lampada preferita per il suo design fantasioso e unico che mi ricorda le mobili cinetiche di Calder, che adoro.

 

In generale, qual è la tua cosa preferita da ritrarre?

Amo ritrarre scene naturali e piccoli ambienti con un’atmosfera speciale.

 

La tua arte ha un fascino universale che va oltre le barriere linguistiche. Come riesci a combinare illustrazione e narrazione nel tuo processo creativo?

Quando crei un libro per bambini, la chiave sta proprio nel riuscire a raccontare storie attraverso immagini capaci di arricchire e completare il testo scritto, ponendo domande o a volte addirittura contraddicendolo. La cosa fantastica è che chiunque può “leggere” le immagini, indipendentemente dalla lingua che parla.

 

La selezione dei colori è cruciale nelle tue opere. Come decidi la palette e quale ruolo svolge nel trasmettere l’atmosfera dei tuoi lavori?

I colori sono veicoli di emozioni che utilizzo in modo molto intuitivo, senza pensarci troppo Nel mio libro illustrato “L’ospite inatteso” sono proprio i colori a costruire la storia: un bambino visita una donna anziana, portando un tocco di colore nella sua vita grigia.

 

I tuoi lavori presentano una prospettiva unica sulla realtà. Cos’è la creatività per te e come la coltivi?

È un approccio per me fondamentale nella vita in generale: la creatività va oltre l’arte, è un aspetto essenziale della mia vita, sia personale sia professionale. Si tratta di cercare costantemente soluzioni, esplorare nuove strade, anche e soprattutto nei momenti difficili, e trovare bellezza e significato in tutto ciò che mi circonda. E ha molto a che fare anche con la speranza.

 

La nuova serie del progetto editoriale “What’s in a Lamp?” ci invita a guardare le cose da una prospettiva diversa. I pattern geometrici di Lee Wagstaff nascondono più di quanto possa emergere al primo sguardo rivelando realtà alternative e personaggi fantastici nelle forme delle lampade Foscarini.

Il percorso artistico di Lee Wagstaff, dalla precoce passione per i disegni scientifici durante l’infanzia fino alla formazione artistica alla scuola St. Martins e al Royal College of Art di Londra, è segnato dall’esplorazione creativa dei pattern e delle geometrie e trova espressione nel suo stile unico, caratterizzato da una dinamica combinazione di forme e colori. Nell’arte di Wagstaff, l’osservazione è fondamentale. La sua estetica richiama le illusioni dell’Optical Art, i paesaggi onirici del Surrealismo e la vivacità della Pop Art, e riesce a suscitare meraviglia e curiosità sfidando la percezione. Se l’osservazione profonda delle sue opere rivela infatti dettagli intricati, allontanandosi si rivelano invece volti nascosti, personaggi e storie.

Nella sua serie per il progetto “What’s in a Lamp?” di Foscarini l’artista britannico crea un universo parallelo abitato da maghi, giullari e spiriti, i cui volti enigmatici emergono tra intricati intrecci geometrici dai colori vivaci. La collezione Foscarini, con le sue molteplici lampade caratterizzate da personalità diverse, stimola l’immaginazione di Lee Wagstaff, ispirandolo a immaginare e creare storie e personaggi fantastici. E così prendono vita il vivace giullare Orbital e il mistico genio Plass; Caboche si trasforma in una saggia sovrana dai mille occhi e le forme diverse di Spokes incarnano misteriosi spiriti.

“Cerco di catturare un senso di mistero o un’essenza, invitando l’osservatore a non fidarsi dei propri sensi. Inizio individuando dei volti, che gradualmente si caricano di personalità. Suggerisco appena la loro presenza, permettendo allo spettatore di costruire il personaggio nella propria mente e meravigliarsi della sua scoperta.”

Lee Wagstaff

Scopri tutte le opere della serie sul profilo Instagram @foscarinilamps e lasciati ispirare dal percorso artistico di Wagstaff e dalla sua visione creativa leggendo la nostra intervista.

Raccontaci un po’ di te e del tuo percorso. Dove è iniziato tutto? Come sei diventato un artista?

Ero un bambino molto tranquillo e introverso, quindi disegnavo molto, soprattutto la natura. A scuola mi piacevano molto le lezioni di scienze, non tanto per le nozioni, ma perché mi piaceva arricchire di disegni i miei compiti a casa. Il mondo dell’arte è qualcosa a cui sono arrivato per il fatto che avevo alcuni amici artisti, con cui ho frequentato dei corsi serali. Con il tempo, ho approfondito i miei studi alla St. Martins e poi al Royal College of Art di Londra. Per me, l’arte non è mai stata un percorso professionale, ma un modo per osservare il mondo più intensamente.

 

La tua estetica artistica è straordinariamente unica, con pattern ipnotici che rivelano volti realistici quando osservati da lontano. Come definiresti il tuo stile?

La gente me lo chiede spesso. Ho sempre amato i pattern e la geometria da quando riesco a ricordare e probabilmente c’è una connessione tra questo e la mia passione infantile per i disegni scientifici. In biologia ci sono molti pattern. Quando ho iniziato a studiare arte, ho voluto esplorare pattern più definiti e rigorosi. Nel mio lavoro si possono trovare elementi di Optical Art, Pop Art, Surrealismo e astrazione. Direi che mi piace lavorare seguendo una struttura, ma cerco sempre di spingere i miei limiti sia dal punto di vista tecnico che intellettuale.

 

Come si è evoluto nel tempo il tuo stile espressivo? È stato uno sviluppo naturale o il risultato di una ricerca e sperimentazione intenzionali?

Sperimento molto. Ci sono voluti anni perché la mia arte diventasse quello che è ora e spero che continui a evolversi nel tempo. Che ci crediate o no, il mio obiettivo a lungo termine è raggiungere uno stile artistico il più semplice possibile, ma sento sia necessario attraversare una fase di maggiore complessità per arrivarci.

 

Perché i pattern giocano un ruolo così significativo? Che significato hanno per te?

I pattern sono indicatori, aiutano a prevedere le cose. Sono interessato a tutti i tipi di pattern, non solo quelli decorativi, ma anche pattern comportamentali o nel trovare pattern nella storia. La mia ricerca consiste nel trovare connessioni tra oggetti, eventi o persone che, a prima vista, sembrano non correlati.

 

Qual è il tuo processo creativo quando lavori alle tue opere? Hai dei rituali o abitudini ricorrenti?

Sì, ho dei rituali ben definiti per quanto riguarda gli orari e il luogo in cui lavoro, i materiali che utilizzo, eccetera. Di solito, lavoro contemporaneamente su almeno sei dipinti, o anche di più, e ne distruggo molti nel corso del processo creativo.

 

Puoi raccontarci qualcosa del tuo processo creativo e narrativo, specialmente in questa serie?

Questo progetto è stato un’esperienza interessante e più impegnativa di quanto mi aspettassi. Non avevo mai affrontato prima il compito di interpretare la visione artistica di altri attraverso il mio stile. Ho cercato di essere rispettoso nei confronti dei designer, ma anche fedele alla mia visione. Lavorare su questo progetto mi ha spinto a essere più audace nell’esplorare le possibilità dei colori e ad immaginare che questi oggetti/personaggi possono esistere nella realtà.
Di solito, il mio processo inizia con un’attenta osservazione dei pattern e delle forme, poi immagino volti, e poi i volti iniziano ad assumere una personalità.  Il mio obiettivo artistico è catturare un senso di mistero o un’essenza, ma voglio anche che chi osserva sia spinto inizialmente a non fidarsi dei propri sensi, per poi meravigliarsi di quello che pensa di essere riuscito a scorgere. Lascio che lo spettatore costruisca il personaggio nella propria mente; forse gli ricorderà qualcuno che conosce o un volto che ha visto da qualche parte.

 

Puoi descrivere i personaggi che hai immaginato per la serie “What’s in a Lamp?” e cosa li ha ispirati?

Non appena ho visto le lampade della collezione Foscarini ho subito notato che i designer condividono la mia passione per i pattern e le forme. Immediatamente ho iniziato a vedere dei volti all’interno o intorno alle lampade e a dar vita a personaggi ispirandomi ai loro nomi suggestivi. Plass è uno spirito magico, simile a un genio racchiuso in un contenitore, che osserva il mondo attraverso la sua superficie cristallina, in attesa di esaudire un desiderio o fare una profezia. Orbital è un giullare, sempre pronto a portare gioia con le sue forme e i suoi colori, un compagno fedele nei giorni belli e in quelli difficili. Gregg è una dea nata da un uovo cosmico che risplende e illumina; la sua bellezza è eterna, il suo bagliore soprannaturale. Spokes sono tre spiriti timidi, tre sorelle che appaiono solo a chi ha una fervida immaginazione e la pazienza di osservare e attendere. Quando le ombre si spostano, è lì che le sorelle appaiono. Caboche è una sovrana dai mille occhi. Il suo diadema le copre il volto, ogni sfera è una lente. Lei vede tutto e sa tutto. E la sua sola presenza getta bellezza e saggezza su tutto ciò che le sta attorno. Sun Light of Love un autentico essere celeste. Durante il giorno, si presenta come una silhouette puntuta e curiosa, un pianeta dai misteri nascosti; di notte, brilla come una stella ardente, un vero faro dell’amore.

Tra le opere della tua serie “What’s in a Lamp?”, qual è la tua preferita? Cosa la rende speciale?

È abbastanza difficile scegliere, mi sento molto legato a tutte e sei le lampade che ho ritratto. Ho passato molto tempo a guardarle e ad immaginare cosa avrei potuto aggiungere a quelle forme. Se dovessi sceglierne una, sarebbe Gregg, perché è una forma geometrica unica a sé stante, che è un blocco di partenza per creare qualsiasi pattern. È elegante nella sua semplicità e ha una presenza affascinante e calma. Ovunque si trovi, ha il potere discreto e gentile di migliorare l’ambiente circostante, sia che si tratti di spazi interni o esterni, grandi o piccoli.

 

Hai mai considerato l’integrazione dell’intelligenza artificiale nel tuo processo artistico? Secondo te, l’IA potrebbe favorire l’innovazione e ampliare l’espressione artistica?

Mi è capitato di utilizzare le “Reti Generative Avversarie” (GAN) per creare volti simmetrici unici per i miei dipinti. La tecnologia GAN che utilizzavo permetteva di “incrociare” uno specifico volto con altre migliaia di volti con cui il sistema era stato alimentato e addestrato. Questo rendeva possibile introdurre più facilmente i tratti specifici di familiari, ad esempio, o del viso della Monna Lisa. Dal mio punto di vista, si tratta semplicemente di uno strumento, come Photoshop, o una penna. I programmi di intelligenza artificiale sono divertenti e possono aiutare in molti progetti. L’IA è espansiva, e in questo senso permette a molte più persone di partecipare alla creazione di immagini e idee, tuttavia, pur potendo creare contenuti, non ha immaginazione, e questo è qualcosa che, al momento, non può essere insegnato. Il modo in cui funzionano le piattaforme di IA più popolari è una sorta di riorganizzazione predittiva dei dati. Per me, è uno strumento sorprendente, specialmente per la velocità, ma i risultati sono per lo più deludenti perché spesso sono molto populisti,  persino prevedibili.

 

Cos’è la creatività per te?

Per me, la creatività è partire da nulla o da pochissimo e trasformare un’idea in qualcosa di concreto, che possa essere condiviso o utilizzato. È risolvere un problema, ma non sempre nel modo più semplice o ovvio.

 

Francesca Gastone ha un talento nel mescolare elementi della realtà in straordinarie opere di digital collage che ispirano stupore e gioia. Nella sua ultima serie, parte del progetto “What’s in a lamp?”, le lampade Foscarini diventano l’elemento propulsore di suggestivi micro-mondi, in cui si creano ed animano scene di vita quotidiana.

Francesca Gastone, laureata in Architettura presso il Politecnico di Milano e con una specializzazione in illustrazione editoriale, trae ispirazione dalle sue esperienze in metropoli come São Paulo e Hong Kong. Le sue illustrazioni catturano l’essenza delle interazioni umane, delle emozioni, dell’unicità di ciascun individuo nella moltitudine, mentre la sua formazione in architettura si riconosce nell’attenta gestione spaziale e nella composizione

Nella sua serie per “What’s in a lamp?” Francesca Gastone illustra, con la tecnica del collage digitale, racconti di vita che prendono forma intorno a una selezione di lampade della collezione Foscarini. In queste suggestive illustrazioni, ogni lampada illumina episodi di quotidianità in micro-mondi che risultano familiari e surreali al tempo stesso, sviluppando narrazioni in cui è naturale immergerci e delineando protagonisti nei quali immedesimarci. Storie visive che, come ponti verso le lampade che le animano, tracciano percorsi che ci avvicinano alla loro luce.

“Il tempo scorre in un susseguirsi di mattine, pomeriggi, sere e nottate; le lampade restano apparentemente immutabili, eppure hanno questo potere bellissimo di accendersi e diventare anch’esse vive, trasformarsi e trasformare lo spazio e la vita intorno a loro — l’unica differenza è che questa magia, nelle mie illustrazioni, è posta su scala differente.”

Francesca Gastone

In questa intervista esclusiva, Francesca Gastone ci porta nel suo mondo creativo, raccontandoci il percorso che l’ha portata dall’infanzia, quando il disegno era la sua passione, fino alla maturità come illustratrice e architetta. Condividendo le influenze che hanno plasmato la sua visione artistica, approfondisce l’ispirazione dietro a questa serie realizzata con Foscarini.

Ciao, Francesca! Ci puoi raccontare qualcosa di te e del tuo percorso artistico? Quando hai iniziato a dedicarti al disegno e quando hai capito che volevi diventare un’illustratrice?

L’approccio al disegno è sempre stato per me naturale e l’amore per l’arte in tutte le sue forme mi ha portata a un diploma al liceo artistico e, successivamente, a una laurea in architettura. Ho iniziato a lavorare come architetto in Italia e, poi, a San Paolo (in Brasile) e ad Hong Kong. Il primo approccio all’illustrazione è nato casualmente dalla necessità di risolvere questioni di interior design. Mi trovavo a San Paolo, che culturalmente è una città ricchissima, e dove ho trovato terreno fertile per iniziare ad approcciare questo mondo: ho cominciato a comprare sempre più riviste e libri illustrati, a fare workshop e corsi, ma avevo pochissima consapevolezza di come l’illustrazione potesse declinarsi in una vera professione. La nascita di mia figlia Olivia ha coinciso con il mio trasferimento ad Hong Kong. Questo periodo, fatto di ritmi lenti ma serrati, ma anche di scoperta, curiosità, e una vera e propria immersione nei picture books, ha rappresentato una scossa. Un giorno ho preso un aereo per Shanghai ed ho trascorso tre giorni a mostrare i miei lavori (in quel momento totalmente acerbi) alla Shanghai Children’s Book Fair. Non ho raccolto molto, ma ho capito che era una strada vera, percorribile e l’illustrazione è diventata una necessità. Sentivo però di non avere delle basi solide, perciò nel 2021 ho deciso di iscrivermi a un master a Milano. Da quel momento la prospettiva su questa professione è cambiata e ho capito che l’illustrazione riassumeva in giusta dose tutto ciò che amavo.

 

 

Come convivono e si influenzano reciprocamente le due anime di Francesca Gastone, l’architetto e l’illustratrice?

Convivono e si influenzano costantemente, tanto da non sapere spesso riconoscere dove finisce una e comincia l’altra. Ricordo che a 7 anni disegnavo solo tetti e tegole e la maestra scherzò con mia madre dicendole che avrei fatto l’architetto. Non so se sia stata la fiducia incondizionata verso il suo giudizio o un’attitudine reale a spingermi, ma presi quella frase come una rivelazione, come se avessi ricevuto un dono e la strada davanti fosse diventata magicamente chiara. La figura dell’architetto mi sembrava magica e potentissima; nessuno nella mia famiglia aveva mai lavorato in questo ambito. Questo aneddoto oggi mi fa sorridere e credo che l’architettura resti una delle mie più grandi passioni, le devo tantissimo, ma nel corso degli anni e dopo aver vissuto in tre continenti con approcci diversi al lavoro di architetto, ho capito che quel ruolo mi stava spesso stretto. L’illustrazione ha in qualche modo risolto tante cose che in me erano sospese, ma la verità è che mi sento un architetto anche quando faccio l’illustratrice. La scuola politecnica mi ha dato un metodo che quasi inconsciamente ripongo in ogni aspetto professionale della mia vita. È un bagaglio utilissimo ma molto ingombrante e che spesso mi fa chiudere in schemi da cui mi è difficile liberarmi.

 

 

Come descriveresti il tuo stile artistico, e come si è evoluto nel corso del tempo?

In realtà, ho iniziato facendo quello che ho sempre fatto in architettura, solo che invece di piante, prospetti e sezioni, ho iniziato a costruire architetture immaginarie e metaforiche per poi renderle abitate. L’architettura si presta alla relazione con concetti molto più ampi del solo abitare; si fa strumento per affrontare qualunque tema, perché è dentro di tutti noi. Gli esseri umani hanno questa meravigliosa capacità di abitare spazi, ma anche sensazioni, emozioni, idee. Siamo in grado di scegliere quanto e come occupare e quanto invece lasciare… un vuoto, un silenzio, fisica e astrazione. Questo è ciò che mi muove. Spesso ricorro, come nel caso di Foscarini, al contrasto tra scale diverse, trasformando oggetti in piccole architetture abitate. Il contrasto che ne scaturisce porta alla sorpresa, e quando riesco a meravigliare, penso di aver fatto un buon lavoro. È una buona misura di valutazione. Altro aspetto fondamentale è l’uso del collage: se per alcuni elementi ammetto l’astrazione e mi discosto dalla realtà perché il collegamento al tema sia immediato, i personaggi ed alcuni oggetti che scelgo sono sempre reali ed inseriti a collage. Questo legame con il reale è per me necessario, e la scelta della giusta espressione, posizione, sguardo diventa maniacale.

Qual è la tua più grande fonte di ispirazione quotidiana e come coltivi la tua creatività?

Senza dubbio, le persone e le loro diversità. Le mie illustrazioni raramente urlano un messaggio; si fanno manifesto. Sono invece l’immagine di un futuro per me ideale. Sono fatte per lo più da persone; la componente umana è necessaria alla lettura stessa dell’immagine. Aver vissuto in due megalopoli come San Paolo ed Hong Kong ha fatto sì che allenassi il mio sguardo verso le vite degli altri, riconoscere le unicità nella moltitudine. Le persone che disegno sono portatrici di un’identità ed un sentire comune, pur mantenendo ognuna la propria unicità. Forse è per questo che amo le grandi città: questo senso identitario condiviso è più comune e afferrabile, diventa quasi un bisogno. La mia creatività la coltivo principalmente così: osservando e fotografando continuamente soggetti, luoghi, atmosfere. Ho un’infinità di cartelle sul PC con foto che spesso guardo ed uso al bisogno. Ma nulla di questo sarebbe possibile senza uno studio costante e una curiosità incessante verso il passato (ciò che è già stato fatto, i maestri, il bagaglio che ci portiamo) ma anche verso ciò che succede intorno a me nel presente. Viviamo in un momento dove gli stimoli sono eccessivi e sono ovunque; bisogna sviluppare un proprio senso critico verso le cose. Questo credo sia importantissimo.

 

Come è nata la collaborazione con Foscarini?

Foscarini è un brand che nella mia vita da architetto è sempre stato presente, dai prodotti ad Inventario. Realizzare una collaborazione con Foscarini è quello che per me si potrebbe definire un “dream project”, la sintesi perfetta di ciò che più amo.

 

Nel progetto “What’s in a lamp?” per Foscarini, hai creato affascinanti ‘micro-mondi’ intorno alle lampade della collezione. Ci racconti qualcosa di più dell’ispirazione dietro a questa serie?

Il punto da cui sono partita sono i prodotti Foscarini. Volevo fossero al centro del racconto e ho iniziato a guardarli nella loro proporzione di pieni e vuoti, con una vita propria scandita dal tempo e dalla luce, naturale o artificiale, con le loro ombre. È stato quasi naturale farli vivere come delle piccole architetture attorno a cui si muove la vita. Il tempo scorre in un susseguirsi di mattine, pomeriggi, sere e notti; le lampade restano apparentemente immutabili, ma hanno questo potere bellissimo di accendersi e diventare anch’esse vive, trasformarsi e trasformare lo spazio e la vita intorno a loro. È una piccola magia insomma, e una riflessione su quanto questa magia accada quotidianamente, qui è solo posta su scala differente.

 

Ci sono oggetti che, un po’ come le lampade Foscarini nella tua serie, rappresentano per te dei punti fissi, delle presenze costanti intorno alle quali si sviluppano le tue esperienze quotidiane?

Ho abitato tantissime case ed ho un rapporto difficile con il concetto stesso di casa (forse da qui la mia ossessione sull’abitare) e nel corso degli anni sono diventata sempre più selettiva nella scelta degli oggetti che mi circondano, ma la costante associata al “punto fisso” in ognuna di queste case credo sia sempre stato il tavolo da pranzo. Su quel tavolo gira sempre la vita dell’intera casa, dal consumo dei pasti, alla preparazione stessa, allo studio, al lavoro, alla sperimentazione, al gioco, alla conversazione, all’ospitalità. Infatti, attualmente, occupa quasi l’intera casa. Se invece devo pensare a oggetti specifici che in queste undici case mi hanno seguita, sono tutti oggetti di poco ingombro e facili da trasportare: una statuetta dell’Espírito Santo in legno, regalo di un amico; un libro di Zumthor; una vecchia fotografia di mio nonno che immortalava la fioritura di una pianta grassa; un’incisione di un gruppo di araucaria brasiliane. Una piccola Wunderkammer trasportabile.

 

Puoi approfondire l’aspetto narrativo del tuo processo creativo?

Lo storytelling che si cela dietro ad ogni lavoro è importantissimo e svolge un ruolo fondamentale; arricchisce il lavoro stesso e lo determina. Scegliere cosa dire, in che misura, come dirlo, quale tono di voce usare si riversa in tutte le scelte formali che ne seguono, dalla composizione ai pesi, alla palette. I lavori che preferisco sono quelli che nel raccontare non si pongono come obiettivo quello di dare risposte, ma bensì aprire domande. Credo che il lavoro svolto per Foscarini ben rappresenti un esempio di quest’ultimo: le illustrazioni raccontano la vita che accade intorno alle lampade, ma non ci danno istruzioni su come sia meglio viverle. In quelle vite ci rispecchiamo, ci riconosciamo, ci domandiamo che ruolo avremmo potuto assumere, quale orario della giornata sentiamo più nostro, quale luce ci fa stare più a nostro agio. Sono un ponte di contatto con le lampade rappresentate, delineano percorsi che ci avvicinano a loro e ci fanno venire voglia di prendere parte a questa giostra di vita.

 

Qual è la tua illustrazione preferita all’interno di questo progetto e quale significato ha per te?

Ognuna di queste illustrazioni è stata per me un viaggio, ma credo di preferire fra tutte la notte di Cri Cri. È l’unica lampada che ho disegnato accesa nelle ore notturne, proprio perché il suo sembrare una piccola lanterna mi ha subito evocato la meraviglia di come una notte possa essere abitata, in questo momento intimo e magico dove un bimbo è assorto nella lettura di un libro.

 

Qual è il tuo soggetto preferito da disegnare?

I bambini, per svariati motivi. Primo fra tutti il fatto che rendono immediata la trasmissione di un concetto e di una particolare emozione, perché le attività che li vedono coinvolti spesso riassumono concetti molto più articolati e complessi in modo semplice ed immediato. Il gioco come metafora della vita. Poi sono anche bellissimi da disegnare, e mi sono spesso sentita dire che sorrido mentre li disegno. Il migliore antidepressivo insomma.

 

Cos’è per te la creatività?

Ti rispondo riprendendo il verbo che tu hai scelto nelle domande precedenti per parlare di creatività: coltivare. Credo che l’uso di questo verbo ne determini bene la natura: viva. Necessita di nutrimento quotidiano, attenzione e cura, ma anche della capacità di farla crescere e risplendere. Questa capacità è legata alla preparazione, oltre che alla semplice predisposizione.

Lasciati trasportare nel mondo dei collage illustrati di Francesca Gastone e scopri l’intera serie sul canale Instagram @foscarinilamps

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Fausto Gilberti, noto per il suo stile minimalista popolato di figure stilizzate con occhi grandi e corpi sottili, dà vita a una nuova serie nel progetto editoriale “What’s in a Lamp?” di Foscarini.

Fausto Gilberti  è un artista poliedrico: pittore, disegnatore e autore di libri che raccontano l’arte, specialmente quella contemporanea e concettuale, con ironia e curiosità. Il suo stile distintivo, in bilico tra pittura e disegno, tra grafica e illustrazione, racconta storie per immagini in cui personaggi stilizzati dagli occhi grandi emergono su uno sfondo bianco indefinito, creando scenari unici e immediatamente riconoscibili.

I suoi “omini” iconici si muovono in uno spazio etereo in cui interagiscono con le lampade Foscarini dando vita a situazioni ironiche e surreali.  Un tratto minimalista e sintetico, frutto di anni di ricerca volti a trovare un segno grafico personale, universale, che rappresenti la figura umana ridotta ai minimi termini. In questo, trova un comune fil rouge con il design delle lampade Foscarini: la ricerca della sintesi, l’eliminazione del superfluo per raggiungere l’essenziale. Gilberti afferma: “Con il disegno ho sempre cercato semplicità delle forme e purezza del segno. Questi elementi formali li ho trovati anche nelle lampade Foscarini. Nel disegnarle mi sono subito accorto che la loro forma era in perfetta armonia con quella delle mie figure.”

In questa serie inedita di disegni, l’omino archetipico di Gilberti interagisce con le lampade della collezione Foscarini, sostenendole, abbracciandole e immergendosi figurativamente nella loro luce e forma. Uno sguardo unico sul rapporto intimo tra l’individuo e la luce.

Le illustrazioni in bianco e nero sono vibranti ed espressive; piccoli dettagli contraddistinguono i personaggi stilizzati, e le lampade – unica nota di colore –  contribuiscono a delineare la personalità del personaggio che con esse interagisce, così come – quando le scegliamo per le nostre case – raccontano qualcosa di noi.

Segui il progetto “What’s in a Lamp?” su Instagram per scoprire l’intera serie e leggi la nostra intervista esclusiva con l’artista Fausto Gilberti, scopri le sue fonti di ispirazione, la sua ricerca artistica e scopri di più sulla collaborazione con Foscarini.

Com’è cominciata la tua avventura artistica? Hai sempre intuito che l’arte sarebbe stata il tuo percorso? Qual è stata la tua prima esperienza significativa in questo mondo?

Da piccolo vedevo mio fratello Mario dipingere e lo imitavo. Mario è molto più grande di me, e mi portava alle sue mostre in giro per l’Italia e nelle città d’arte a vedere i pittori antichi. A lui, ancora oggi, piace più di tutti il Beato Angelico.

Era il 1987 e frequentavo la scuola d’arte. Durante la lezione di geometria stavo completando di nascosto un disegno che rappresentava alcune centinaia di omini che andavano a riempire completamente un piccolo foglio. A un certo punto il professore si accorse che non ascoltavo la lezione. Quindi si avvicinò con fare minaccioso e scoprì che stavo disegnando per i fatti miei. Sorprendendo me e tutti i miei compagni di classe, però, invece di strigliarmi mi disse: “Bravo Gilberti, vai avanti”.

Quel disegno che tutt’ora conservo è una composizione di 562 omini alti due centimetri e mezzo disposti su dieci file. Tutti diversi. Si intitola: “La suora”. Quell’episodio lo considero l’inizio di tutto.

 

Cosa ti motiva a creare? La tua ispirazione proviene dalla curiosità, dalla ricerca di significato o dall’espressione visiva pura?

Sono attratto da tutte le immagini che vedo, non soltanto da quelle artistiche. Anche quelle postate sui social o pubblicate su una normale rivista patinata mi interessano. Anche quelle descritte da un testo letterario o proiettate da un film o evocate dall’ascolto musicale. Qualsiasi immagine che mi colpisce può essere fonte di ispirazione.

 

Il tuo stile minimalista e sintetico, con personaggi stilizzati dagli occhi grandi e stralunati, è diventato il tuo marchio di fabbrica. Come hai sviluppato questo stile distintivo?

È stato un lento processo di sintesi e di riduzione del mio segno.

Come dicevo, alcuni anni fa disegnavo figure umane ricche di dettagli. Ogni omino era diverso dall’altro. Ognuno aveva caratteristiche uniche: erano dei personaggi. Ora, invece, l’omino che disegno è la rappresentazione dell’uomo in chiave universale ridotto ai minimi termini.

 

Parliamo del progetto con Foscarini, “What’s in a lamp?”. Cosa ti ha ispirato in particolare in questa collaborazione? Qual è la tua opera preferita all’interno di questo progetto e quale significato ha per te?

Con il disegno ho sempre cercato la semplicità delle forme e purezza del segno. Questi elementi formali li ho trovati anche nelle lampade Foscarini. Nel disegnarle mi sono subito accorto che la loro forma era in perfetta armonia con quella delle mie figure.

Tra i disegni che ho realizzato il mio preferito è quello della lampada Gregg. Volevo trasmettere la dolcezza, la poesia e l’eleganza di quella lampada. E il soggetto dell’abbraccio mi è venuto quasi in modo automatico.

Nonostante lo stile minimalista, molti dei tuoi lavori riescono a raccontare, in pochi tratti, intere storie, vite, situazioni ed emozioni. Puoi approfondire l’aspetto narrativo del tuo processo creativo?

A volte basta soltanto cambiare lo spessore di una linea che il disegno cambia aspetto e significato. Mettere sulla carta segni e forme e colori è un po’ come comporre un brano musicale, le note sono sempre quelle, ma hai un’infinità possibilità di combinarle, basta poco, e la musica cambia.

 

Quali sono le fonti di ispirazione che guidano il tuo lavoro? Cosa trovi di affascinante nella realtà che ti circonda e come si riflette nel tuo stile?

Adoro da sempre la pittura medievale e del primo Rinascimento, e ho sempre cercato di comporre le mie opere ispirandomi alle caratteristiche formali di questi periodi artistici: la simbolicità, l’essenzialità e la staticità della pittura medievale; l’armonia, l’equilibrio e la forza narrativa di quella rinascimentale. Mi sono formato artisticamente nel mondo dell’arte contemporanea, ma nello stesso tempo ho sempre guardato e studiato altri ambiti creativi.

Alcuni anni fa una delle mie principali fonti di ispirazione era la musica, i videoclip musicali, le copertine degli album, nonché l’immaginario a cui alcuni generi musicali si ispiravano. Ho dipinto molti quadri su quel tema e pubblicato un libro con circa 200 disegni.

Anche il cinema mi ha ispirato spesso: nel 1999 per una delle mie primissime mostre personali ho realizzato una serie di opere (oli su tela, disegni e dipinti murali) ispirate a Twin Peaks di David Lynch.

Sono convinto che ogni artista racconti sempre sé stesso, che la sua opera è sempre “autobiografica”. Nel mio lavoro si riflettono tutte le esperienze della mia vita, le mie passioni, nonché le ossessioni.

 

Hai creato una serie di libri illustrati insieme a Corraini Edizioni che raccontano la vita di vari artisti, come Piero Manzoni, Banksy, Yayoi Kusama. Perché hai scelto di narrare la vita e l’opera di altri artisti, e qual è l’importanza di farlo attraverso la lente di un collega artista? Come il tuo approccio artistico si riflette in queste biografie?

Il primo libro della serie sugli artisti contemporanei è nato quasi per caso. L’idea mi è venuta quando stavo visitando la mostra di Piero Manzoni a Milano nel 2014. Avevo portato con me anche Emma e Martino (i miei due figli, che allora avevano 7 e 8 anni), anche se avevo il timore che si sarebbero potuti annoiare. Li ho visti passeggiare nelle sale di Palazzo Reale incuriositi e divertiti e guardare le bizzarre opere di Manzoni con stupore. Lì ho capito che il mio prossimo libro avrebbe raccontato una storia vera! Quella di Piero Manzoni. Pubblicato il libro mi sono poi accorto che c’erano altri artisti concettuali e rivoluzionari come Manzoni, spesso osservati con pregiudizio dagli adulti, che non erano ancora stata raccontati ai bambini. Così con Corraini abbiamo pensato e poi deciso di iniziare una collana dedicata.

Faccio questi libri con un approccio che è molto simile a quello che ho quando disegno o dipingo per una mostra. Lavoro in piena libertà e non mi pongo obiettivi didattici o pedagogici. Cerco di divertirmi e di divertire il pubblico raccontandogli una storia, seppur complessa, nel modo più minimale ed efficace possibile, facendo un grande lavoro di sintesi del segno grafico e soprattutto del testo.

 

Chi sono stati i tuoi maestri o le influenze più significative nel plasmare la tua visione artistica?

Artisti contemporanei come Yves Klein, Keith Haring, Jean Dubuffet, Jochum Nordstrom, Raymond Pettibon e tanti altri. Pittori antichi come Rosso Fiorentino, Piero della Francesca, Jan Van Eyck. Scrittori come Cormac McCarthy e Raymon Carver. Registi come David Lynch e Lars Von Trier. Musicisti come Miles Davis, The Cure, Joy Division, Radiohead, Apex Twin, Nine Inch Nails, Bon Iver, Alt-J.

 

Hai una ritualità nel disegnare? Segui particolari abitudini o processi quando ti dedichi al disegno?

Diciamo che non disegno quasi mai in silenzio. O lo faccio ascoltando musica, oppure ascoltando e sbirciando tra una pausa e l’altra (ovvero quando stacco il pennello dal foglio) un film o una serie tv.

 

Cos’è per te la creatività?

È la capacità di guardare il mondo e tutto ciò che ci sta dentro da più punti di vista. Alla ricerca di qualcosa che non risulta subito evidente ai più. E di rielaborare in modo personale ciò che abbiamo scoperto e colto.

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Nella nuova collaborazione per il progetto “What’s in a lamp?” Stefano Colferai trae ispirazione da VITE. Attraverso l’uso di un materiale inedito come la plastilina, crea scenari animati in stop-motion che narrano in modo ironico la quotidianità, illuminata dalle lampade Foscarini.

L’artista milanese Stefano Colferai emerge come un talento poliedrico. Da grafico e illustratore, si è evoluto nella modellazione 3D e poi nella scultura, abbracciando un materiale poco utilizzato – la plastilina – come medium espressivo. I suoi personaggi e le sue animazioni ironiche e coinvolgenti hanno catturato l’attenzione di case editrici e riviste anche oltreoceano che hanno contribuito a portare la sua arte ad un pubblico internazionale.

Nella sua serie per il progetto editoriale di Foscarini “What’s in a Lamp?” Stefano Colferai, ispirato dal progetto fotografico VITE (di Foscarini e Gianluca Vassallo), esplora la relazione tra luce, lampada, persona e casa dando vita ad una serie animata unica nel suo genere. Le lampade Foscarini diventano parte integrante del quotidiano di un simpatico personaggio in plastilina creato dall’artista, accompagnandolo dalla colazione al binge-watching serale.

In questa intervista esclusiva, esploriamo il mondo creativo di Stefano Colferai e approfondiamo la sua collaborazione con Foscarini L’artista condivide il suo percorso artistico, la scelta della plastilina come materiale distintivo e parla dell’importanza cruciale della luce nella sua arte.

Raccontaci qualcosa di te: hai sempre saputo che volevi fare l’artista? Qual è stato il percorso che ti ha portato alla scultura?

Penso proprio di si! Ho sempre avuto il desiderio, volontà e necessità di esprimere le mie idee e veicolarle attraverso diversi strumenti, ricercando continuamente quello che più potesse sposarsi con il mio immaginario e darmi soddisfazione. E’ stato un percorso da autodidatta che ha avuto sempre come filo conduttore la creazione di personaggi, passando dal disegno su carta a quello digitale e attraverso la pittura finendo poi con la scultura.

 

Perché hai scelto di lavorare con un materiale come la plastilina? Come hai imparato ad usarla?

Nella fase di ricerca stilistica ad un certo punto ero molto attratto dal mondo 3D e dal poter dare maggiore profondità ai personaggi e alle illustrazioni che facevo (all’incirca dieci anni fa). Avvicinandomi e scontrandomi con il linguaggio 3D e arrivando già da un momento di sperimentazione digitale ho capito che in realtà la mia svolta creativa poteva evolvere verso una direzione più artigianale e riportarmi vicino a quella che è la genuina attitudine di lavorare con le mani. Ho quindi iniziato a lavorare con la plastilina e fotografarla grazie ad un’intuizione di poterla usare come materiale per le mie sculture rimanendo fedele al mio stile di allora e simulando così un effetto 3D reale.

 

Qual è il tuo processo creativo? Hai una ritualità quando crei le tue sculture?

È molto spontaneo, raramente realizzo bozzetti di idee perché preferisco visualizzare subito e dare forma con le mani ad un’idea che ho avuto. Forse la mia ritualità sta nel appuntarmi tutte le idee che ho sulle note del telefono per non farmi sfuggire delle idee e riprenderle nel momento in cui posso realizzarle. Da quel momento è un flusso continuo tra scultura, fotografia, animazione e postproduzione.

 

Qual è il ruolo della luce nella tua arte?

Il ruolo della luce è fondamentale: I miei lavori non esisterebbero senza fotografia! Seppur ci sia una grande continuità in termini di illuminazione dei lavori che faccio, ho svolto molta ricerca in questi anni per cercare la miglior relazione tra i miei soggetti, il mio set, l’ambiente che mi circonda e l’illuminazione provando a costruire una narrazione anche grazie alla luce. Comunicando tramite foto e video, una luce corretta può incredibilmente dar maggior valore ad una scultura realizzata e a dei frame messi in sequenza che creano un animazione, creare la giusta atmosfera, definire il corpo e il carattere di ogni scena. Studiare la luce di ogni animazione o still frame è uno dei momenti su cui spendo più tempo assieme alla modellazione.

 

Come è nata la collaborazione con Foscarini?

Sicuramente dalla comunione per l’interesse reciproco di alcuni elementi molto importanti come la luce, l’attenzione, l’interesse per la forma e l’artigianato.

 

In questo progetto hai descritto delle scene domestiche, familiari, in cui la luce e le lampade Foscarini accompagnano il personaggio protagonista e raccontano qualcosa della sua personalità attivando sensazioni ed emozioni nelle quali è facile immedesimarsi. Ci racconti qualcosa di più dell’ispirazione dietro a questo lavoro?

Ho trovato da subito molto interessante il progetto di Foscarini VITE, che racconta attraverso la fotografia la relazione tra luce/lampada, persona e casa. Per me è stato di grande ispirazione cogliere l’imperfezione negli scatti di questi racconti in cui la luce è molto e provare a interrogarmi come è cambiato il rapporto tra persona e casa in questi anni. Occupandomi di character design e stimolato da questo progetto di Foscarini, ho voluto creare il mio personaggio ad hoc e farlo vivere in diverse ipotetiche ambientazioni proprio come se fossero delle istantanee di Vite. Il personaggio vive quindi la propria quotidianità accompagnato dalla luce e dalla forma delle lampade nelle diverse stanze in cui si trova, mantenendo intatto nelle azioni che svolge, il linguaggio che contraddistingue la mia cifra stilistica con la stessa spontaneità dei racconti di VITE.

 

Ci sono degli oggetti che, ovunque tu vada, ti fanno sentire «a casa»?

Sì, e metterei nella lista tazzine di caffè, poltrone, tavoli in legno, lampade, cornici quadri e stampe, cartine geografiche, cassettiere e portascarpe, giradischi e dischi, giochi da tavolo e carte. Potrei continuare, la lista è lunga!

 

Qual è/sono le scene che ti piacciono di più in questa serie e perché?

Mi sono affezionato alla scena del pittore, che collego a mio nonno sia per costruzione del set che per luce e ambiente. Lui dipingeva sempre replicando paesaggi di cartoline, foto di paesaggi tratti dai giornali o comunque memorie dei suoi luoghi. Il dipinto di Venezia che realizza il personaggio è un easter egg che cita le origini di Foscarini ma che mi ricorda molto anche lui.

 

Quali sono le tue fonti di ispirazione e come coltivi la tua creatività?

Ne ho diverse e cerco di mantenerle vive: mi piacciono molto i mercati, dove si possono incontrare persone di tutti i tipi, osservare situazioni inaspettate, sentire odori ed ascoltare suoni, rumori e linguaggi diversi. Mi ispira molto andare per gallerie e provare a capire artisti che non conoscevo, apprezzarli e non apprezzarli. Mi ispira tutto ciò che implica uno sforzo manuale e coinvolge creatività, mi ispirano le persone che superano i propri limiti e le imprese sportive. Mi ispira chi raggiunge i propri obiettivi, ma anche chi non ce la fa provandoci con tutte le sue forze. Mi ispira chi porta a compimento un cambiamento e trovo di grande ispirazione stare sotto la doccia. Mi ispira viaggiare e uscire dalla mia zona di comfort. Mi ispirano i racconti. Ci sono molte cose che mi ispirano e provo a coltivare la mia creatività come se tutte queste cose fossero delle lampadine da accendere al momento giusto!

 

Cos’è per te la creatività?

Rendere visibile ciò che ancora non è stato creato.

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Una lampada Spokes che si trasforma in gabbietta per un canarino cinguettante, una Kurage che abita i fondali marini come fosse una vera medusa e l’iconica Twiggy che prende all’amo un pesce.

Un nuovo capitolo del progetto editoriale “What’s in a Lamp?” di Foscarini: l’artista italiano Luccico reinterpreta artisticamente il concetto di “realtà aumentata” in chiave inedita e sorprendente. I raffinati scatti di prodotto still life a cura del fotografo Massimo Gardone incontrano la fantasia di Luccico originando narrazioni inaspettate e surreali in cui le iconiche lampade Foscarini sono al centro della scena, e diventano protagoniste di fiabe figurative.

Luciano Cina, più noto come Luccico, non è solo un artista: è un cantastorie che sa infondere nuova luce nelle cose ordinarie. Specializzato in Ecodesign al Politecnico di Torino, il suo percorso artistico è iniziato con un soprannome — Luccico — nato per caso ai tempi dell’università. Nel 2014 inizia il progetto #MoreThanAPics su Instagram: fotografie di scorci quotidiani che diventano surreali grazie al solo uso delle sue dita, di un tablet e del suo personale tocco di creatività, leggerezza e ironia. È così che un teatro si trasforma in un acquario, una buca d’asfalto diventa un orso polare, una chiazza di petrolio è un cavallo selvaggio e il colonnato di San Pietro un ensemble di musica jazz. Agli occhi di Luciano Cina, anche il dettaglio più banale può diventare un’opera d’arte. Foscarini, spesso all’avanguardia nella creatività e nel design, ha scoperto e iniziato a collaborare con Luccico nel 2015. Oggi questa collaborazione si rinnova per il progetto editoriale “What’s in a Lamp?”, che trasforma il feed Instagram di @foscarinilamps in una galleria virtuale, nella quale si susseguono interpretazioni diverse della collezione Foscarini da parte di artisti affermati ed emergenti, ognuno dei quali con la propria visione e creatività unica.

La serie di Luccico per “What’s in a Lamp?” è un inedito mix di fotografia e illustrazione che prende forma a partire da sei foto di prodotto still-life, curate dal fotografo Massimo Gardone. Questi scatti sono per Luccico una tela ideale sulla quale imprimere la sua reinterpretazione creativa di alcune delle lampade Foscarini. Il risultato è una serie di immagini che spinge ad esplorare storie straordinarie che vanno oltre la fotografia. In questa narrazione visiva in cui le lampade sono protagoniste, si intrecciano racconti ispirati alle loro storie e al loro design distintivo, arricchiti da un tocco di stravaganza.

Leggi l’intervista e immergiti nella fantasia di Luccico, un mondo incantevole in cui basta un segno per trasformare l’ordinario in qualcosa di straordinario.

Raccontaci qualcosa di te e del tuo percorso artistico: come nasce «Luccico»? Quando hai iniziato a disegnare?

Luccico è un soprannome che mi hanno dato ai tempi dell’università. Giocherellando con il mio nome, Luciano è diventato Lucio, e poi Luce, boom, è spuntato Luccico.
Ho cominciato a disegnare un po’ per caso. Avevo appena preso il biglietto aereo per quella che sarebbe stata la mia nuova città, e mentre ero perso nei miei mille pensieri, ho fatto uno schizzo sul mio smartphone: un aereo tra le nuvole in una foto. L’ho condiviso sui social e la mia vita è cambiata. E ora, quasi dieci anni dopo, continuo a raccontare questa storia.

 

Nel 2014 hai iniziato a popolare Instagram con la tua «realtà aumentata», scatti fotografici che prendono vita grazie alle tue illustrazioni in sovraimpressione. Quando e come nasce il tuo progetto creativo?

Realtà aumentata è l’espressione più appropriata per descrivere il progetto #MoreThanAPics, poiché va oltre la semplice fotografia.
L’idea è nata dalla volontà di aggiungere qualcosa in più alle foto, un messaggio, un pensiero. Sono costantemente alla ricerca di piccoli dettagli che possano fungere da ponte verso il mio mondo immaginario. Mi piace unire scene di vita quotidiana, momenti e luoghi iconici a paesaggi fantastici e surreali. Un mondo onirico in cui l’unico limite è quello della nostra immaginazione.

 

Le tue sono immagini raccontano storie, attraverso l’universalità del linguaggio visivo. Nel tuo processo creativo, come sviluppi la componente narrativa per creare uno storytelling a partire da un’immagine?

Sicuramente mi piace lasciarmi trasportare dalle emozioni che provo in un dato momento.
Per trovare l’ispirazione giusta, osservo tutto ciò che mi circonda. Spesso è lo stesso soggetto visto da diversi angoli che accende la mia creatività.

 

La collaborazione con Foscarini nasce nel 2015, quasi per caso, e ora si rinnova per il progetto «What’s in a lamp?». Sei scatti di prodotto, realizzati dal fotografo Massimo Gardone, incontrano la tua fantasia, e danno vita a situazioni inaspettate e surreali. Ci racconti qualcosa di più dell’ispirazione dietro a questo lavoro?

La prima collaborazione è un ricordo che rimane indelebile. Per uno studente di design come me, è stato come realizzare un sogno.
Foscarini è sempre stato noto per la sua originalità e innovazione, e avere l’opportunità di essere associato a un marchio di fama mondiale è stato motivo di grande orgoglio.
La semplicità delle composizioni fotografiche di Massimo Gardone, unite all’uso minimale di luce e colore, mi hanno permesso di esplorare e reinterpretare in chiave ironica il design di queste lampade iconiche.

 

Qual è/sono l’illustrazione/le illustrazioni che ti piacciono di più in questa serie e perché?

Penso alla lampada da terra Twiggy di Marc Sadler: l’asta flessibile, simile a una canna da pesca, è stata l’ispirazione perfetta per una splendida storia legata alla pesca.

 

Le tue opere richiedono creatività e capacità di guardare la realtà da prospettive diverse e originali: come riesci a mantenere la tua freschezza per fare spazio alle idee? Quali sono le tue fonti di ispirazione?

Allenare la creatività richiede tempo. Cerco di dedicare dei momenti nella giornata per esplorare, sperimentare e giocare, perché attraverso l’immaginazione possiamo liberare il nostro potenziale creativo. Questi momenti possono consistere in uno schizzo veloce, una passeggiata per le strade della città, la lettura di un libro al di fuori del nostro genere solito, o semplicemente nel guardare le nuvole nel cielo.
Ogni piccolo gesto contribuisce a mantenere viva la scintilla della creatività, e spero che non mi stancherò mai di osservare ciò che ci circonda con gli occhi di un bambino.

 

Hai un soggetto preferito da disegnare?

Mi piace disegnare aeroplani di carta perché li collego alla leggerezza dei pensieri.
Inoltre, spoiler, sto lavorando per creare un personaggio che possa essere una presenza costante e riconoscibile nei miei prossimi lavori.

 

Hai una ritualità nel disegnare?

Di solito, disegno di notte. Dopo una giornata intensa al lavoro, è il mio modo per rilassarmi.
Cerco di non superare i 30 minuti di disegno perché devono essere diretti, semplici, chiari e con poche linee.
Lavorare su un’immagine per più di 30 minuti rende il messaggio difficile da comprendere.

 

Cos’è per te la creatività?

Una scintilla che accende l’immaginazione e trasforma l’ordinario in straordinario.

Nella nuova serie dedicata al progetto “What’s in a lamp?”, la giovane illustratrice Alessandra Bruni (@allissand) ci invita a scoprire un mondo di luce e di emozioni. Le sue illustrazioni sono intrise di un’atmosfera poetica e familiare, in cui le lampade Foscarini creano atmosfere intime e personali e allo stesso tempo mutano lo spazio, svelano storie, innescano intuizioni.

Alessandra Bruni è un’anima sognatrice, classe ’97 che danza con la creatività. Artista e tatuatrice, la sua passione per l’arte è stata sempre sua compagna di viaggio, ma è negli ultimi anni che sta emergendo come una delle voci più stimolanti nel panorama italiano, che è riuscita a conquistare l’attenzione di importanti testate giornalistiche come The New York Times, L’Espresso e Internazionale. La sua passione per l’illustrazione è qualcosa di relativamente recente: è infatti solo durante il periodo di pandemia scatenato dal Covid-19 che Alessandra ha iniziato a condividere su Instagram le sue illustrazioni. Le sue opere, ispirate ai temi di attualità, parlano di emozioni e relazioni umane, offrendo uno sguardo immediato e profondo con uno stile unico e distintivo, dal tratto minimale, ma estremamente evocativo.

Nella sua serie per il progetto “What’s in a lamp?”, Alessandra ha fatto della luce il protagonista, creando scenari domestici che, seppur familiari, sorprendono inaspettatamente. Racconti per immagini in cui ogni lampada risuona armonicamente con la personalità del protagonista, la svela e attiva sensazioni ed emozioni in cui è facile immedesimarsi. Immagini che, come se fossero finestre aperte sulla nostra quotidianità, sembrano parlare proprio di noi, di ciò che siamo stati o di ciò che saremo, e creano atmosfere quasi palpabili che trasmettono una grande intimità.

Scopri l’intervista completa ad Alessandra Bruni e immergiti nel suo affascinante mondo di luce ed emozioni.

Raccontaci qualcosa di te: hai sempre saputo che volevi fare l’illustratrice? Quando hai iniziato a disegnare e come hai sviluppato/evoluto il tuo stile?

Non ho sempre saputo di voler fare l’illustratrice ma sogno da sempre di lavorare con l’arte e di dedicarvi la mia vita. Ho iniziato a disegnare da bambina, all’età di tre anni avevo già i pastelli in mano e mi divertivo a scarabocchiare al computer con Paint, cosa che potrei definire come una sorta di primo approccio al mondo digitale. Nel periodo scolastico, nonostante non abbia scelto un percorso artistico, mi sono dedicata al disegno realistico in modo quasi maniacale, la copia dal vero è stata la fase iniziale del mio percorso come se volessi assimilare le forme delle cose, dei volti, dei corpi. Crescendo è subentrata la necessità di dare un significato e un contenuto alle immagini, così ho iniziato a dedicarmi all’illustrazione concettuale. Lo stile è in costante evoluzione, si adatta naturalmente alle fasi che attraverso nel mio percorso lavorativo e personale, c’è ovviamente una parte di ricerca ma il fattore istintivo è sempre molto influente.

 

Come è nata la collaborazione con Foscarini?

La collaborazione con Foscarini è nata con quello che forse è il sogno di ogni artista. Foscarini ha notato il mio lavoro in libreria, quando ha letto il mio nome dietro la copertina di un libro che avevo illustrato. Penso non ci sia cosa più gratificante di sapere che il mio lavoro è stato apprezzato e scoperto per caso, genuinamente, con la semplicità con cui si trova una piccola verità in un luogo comune “essere al posto giusto, nel momento giusto”.

 

Le tue illustrazioni sono a tutti gli effetti storie: raccontate non con le parole, ma attraverso l’immediatezza e l’universalità del linguaggio visivo. Puoi parlarci della parte ‘narrativa’ del tuo processo creativo?

Viviamo in un periodo storico in cui tutti ambiscono a far sentire la loro voce alzandola, cercando di sovrastare quella altrui, a volte senza soffermarsi a riflettere. Io spero di andare controcorrente con questo lavoro: la parte che preferisco è l’ascolto. Cerco di assorbire quante più informazioni posso per poi rielaborarle e trasformarle in un’immagine. Si tratta solo di scegliere i giusti elementi che, accostati tra loro, dicono più di tante parole.

 

In questo progetto con Foscarini hai descritto delle scene domestiche che risultano al contempo familiari e sorprendenti: situazioni in cui la luce ha un potere trasformativo e si fa quasi materica dando vita a situazioni inaspettate e surreali. Ci racconti qualcosa di più dell’ispirazione dietro a questo lavoro?

Prima di iniziare ad immaginare queste illustrazioni ho avuto il piacere di ascoltare le parole di Carlo Urbinati, fondatore e presidente di Foscarini. I suoi racconti e la passione con cui vive il suo lavoro mi hanno ispirata enormemente. Questo progetto mi ha portata a maneggiare la luce e a considerarla viva. La luce, nella vita quotidiana così come in una manifestazione artistica, ci permette di dare maggiore valore o importanza ad un elemento, qui la luce stessa è la protagonista. L’idea di “illuminare la luce” mi affascinava moltissimo e mi sono divertita a giocare con essa per creare questa serie, non dimenticando di dare altrettanta importanza alle ombre.

 

In questa serie le lampade sono l’elemento di svolta, il dettaglio che trasforma un semplice «spazio» in un ambiente caldo e personale che possiamo chiamare casa, definendone l’atmosfera, raccontando qualcosa della personalità del protagonista dell’immagine, attivando sensazioni ed emozioni nelle quali è facile immedesimarsi. Ci sono degli oggetti che, ovunque tu vada, ti fanno sentire «a casa»?

Mentre rispondo a queste domande sto vivendo un momento piuttosto unico e particolare. Sto per procedere con l’acquisto della mia prima casa. Ho 25 anni e per tutto il mio vissuto ho pensato solo ad “andare” senza mai fermarmi tanto, è quindi la prima volta che sento il bisogno di questo, di “calore”, di uno spazio in cui tornare e sentirmi a casa. Gli ultimi anni mi hanno vista in diversi contesti, mi sono spostata numerose volte e gli oggetti che ho sempre portato con me sono i libri. Scatoloni di libri che ho già letto, alcuni da bambina, ciò nonostante sono un elemento fondamentale nell’ambiente, definiscono l’atmosfera e mi trasmettono serenità. Onestamente non mi ero ancora soffermata a riflettere sull’argomento, non vedo l’ora di scoprire quali altri oggetti definiranno la mia casa.

 

Qual è/sono l’illustrazione/le illustrazioni che ti piacciono di più in questa serie e perché?

Non è facile scegliere un’illustrazione “preferita”, ogni immagine è unica, così come le lampade da cui mi sono lasciata ispirare. Dovendo scegliere, forse, direi quella che ho creato per Gregg da sospensione. L’immagine vede una ragazza assorta alla finestra, la lampada genera un paradosso poiché la luce si riflette sul mare, all’esterno. In questo modo ho elevato l’oggetto al ruolo di “sole” dell’ambiente domestico, inoltre interno ed esterno comunicano tra loro e il limite è impercettibile. Su un livello più profondo questa vuole essere una metafora per descrivere come il nostro mondo interiore e quello esteriore siano intimamente legati.

 

La tua produzione spazia dai temi di attualità alle relazioni umane, dai sentimenti più intimisti alle tematiche ambientali e sociali. Qual è il tuo soggetto preferito da disegnare, l’ambito nel quale ti senti più a tuo agio?

Tendo a cercare sempre nuovi stimoli per il mio lavoro, una costante probabilmente è la figura umana. In quasi tutte le mie illustrazioni è presente l’uomo che interagisce con l’ambiente che lo circonda, questo perché mi affascinano le infinite sfaccettature del suo animo e della sua psiche. Nel corso della storia l’essere umano si è dimostrato in grado di creare opere incredibili e bellissime ma è anche capace di cose terribili, a volte irrimediabili. Forse è per questo che siamo animali tanto complessi, nel contempo mi trovo estremamente a mio agio nell’esplorare questo ampio tema poiché io stessa vivo giornalmente emozioni contrastanti e disegnare può essere estremamente catartico, oltre che un modo per comunicare con gli altri.

 

L’ispirazione e la creatività stanno alla base dell’illustrazione editoriale. Quali sono le tue fonti di ispirazione?

Le mie fonti d’ispirazione sono molteplici. Cerco di trarre spunto da tutto ciò che mi circonda, a partire dall’ambiente in cui vivo. Anche film, opere d’arte e fotografie sono ottimi modelli da cui farsi ispirare per creare qualcosa di nuovo. Inoltre seguo il lavoro di tanti Maestri dell’illustrazione che sono per me uno stimolo e un esempio per cercare di migliorare costantemente, ne cito qui alcuni: Noma Bar, Ivan Canu, Beppe Giacobbe, Pablo Amargo.

 

Cos’è per te la creatività?

La creatività è una spinta che parte da dentro e che può portare in moltissimi luoghi, è il bisogno atavico di connettere diversi elementi tra loro per generare qualcosa di nuovo. La vita stessa deve tutto alla creatività. Creare, per me, significa esplorare, crescere ma soprattutto divertirmi. Quando creo sento di star facendo ciò per cui sono al mondo, è una sensazione del tutto irrazionale, ne sono conscia, ma è anche estremamente piacevole.

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Scopri il potere dei sogni nell’arte surreale di Kevin Lucbert, che dà vita alle lampade di Foscarini nella nuova collaborazione per il progetto “What’s in a lamp?” – il progetto editoriale che trasforma il feed di Instagram @foscarinilamps in una galleria virtuale con le opere di artisti noti o emergenti del panorama internazionale.

Armato di una semplice penna, Kevin Lucbert dà vita a scenari sospesi tra il familiare e l’ignoto. Il suo stile inconfondibile che supera i confini tra scrittura, disegno e pittura spinge a esplorare i propri sogni e mettersi a scarabocchiare. Prende un oggetto di uso comune – una penna a sfera – lo reinventa e lo trasforma in uno strumento di libera espressione creativa.

Kevin Lucbert, che si autodefinisce “franco-berlinese”, si è diplomato alla Scuola Nazionale di Arti Decorative di Parigi nel 2008 e ora vive tra Berlino e Parigi come membro di The Ensaders, un collettivo di artisti attivo nella realizzazione di performance, mostre e workshop di disegno.

La sua creatività affonda le radici nel potere di sognare per poi portare il sogno nella realtà. Spingendosi oltre i confini della coscienza, crea mondi misteriosi che integrano armoniosamente elementi naturali come il sole, l’acqua, la terra e il cielo. Questa suggestiva combinazione è in grado di confondere la percezione della realtà e invita ad intraprendere un affascinante viaggio immaginifico attraverso lo spazio e il tempo. Con i suoi tratti di penna, l’artista diventa la nostra guida visionaria, mentre ci immergiamo nel suo universo vibrante e mistico.

Nella sua serie per il progetto “What’s in a Lamp?” di Foscarini, Kevin Lucbert ha esplorato la collezione di lampade Foscarini, lasciando che la sua immaginazione si scatenasse. Il risultato: scenari surreali permeati dal suo stile inconfondibile. Tuffatevi negli abissi marini e incontrerete affascinanti meduse Chouchin e insoliti pesci lanterna con, in fronte, le Twiggy illuminate a guidare il loro cammino; oppure contemplate il cielo guardando attraverso la lampada da tavolo Nile che, trasformata in un gigantesco telescopio rivolto verso la luna, diventa un portale per l’universo e la volta celeste.

Scopri in prima persona la magia di Kevin Lucbert e lasciati trasportare dalla sua arte verso dimensioni straordinarie. La serie completa è sul canale Instagram @foscarinilamps.

Raccontaci qualcosa di te e del tuo percorso come artista. Sei sempre stato in qualche modo consapevole che questa era la strada che volevi percorrere?

Sono nato a Parigi nel 1985. Da bambino mi immergevo nel mondo dei fumetti, leggendo e rileggendo la collezione di famiglia dei classici, come Tintin e Asterix. Poi ho scoperto il fumetto d’autore attraverso riviste come “Metal Hurlant” e “A Suivre”. Artisti come Moebius, Tardi, Hugo Pratt, Enki Bilal, Druillet e Comès con le loro storie bizzarre e affascinanti nel loro proprio tratto personale, con intricati tratti di inchiostro in bianco e nero. La mia giovane immaginazione ne è rimasta profondamente affascinata tanto da alimentare in me la voglia di diventare un fumettista e un illustratore.
Anni dopo, ho studiato arte all’”Ecole Nationale Supérieure des Arts Décoratifs” di Parigi, focalizzandomi sulla divisione “immagine stampata”. Qui ho studiato illustrazione, incisione, serigrafia, graphic design e mi sono anche cimentato nella cinematografia. L’approccio multidisciplinare di questa scuola favorisce l’apertura mentale e ha ampliato le mie prospettive. Nel 2005-2006 ho avuto il piacere di fare un’esperienza di scambio Erasmus e di studiare Kommunikationsdesign presso la Kunsthochschule Berlin-Weissensee, un’esperienza per me molto preziosa. Nel 2012 ho deciso di trasferirmi a Berlino, dove io e la mia famiglia viviamo ormai da 10 anni.
Sono anche fiero di essere membro del collettivo di artisti “Ensaders”, che ho co-fondato insieme a due compagni di corso: Yann Bagot e Nathanaël Mikles. Dal nostro incontro nel 2002, abbiamo collaborato alla realizzazione di disegni collettivi, condotto workshop e messo in scena spettacoli.

 

Il tuo stile caratteristico, con tratti di penna a sfera che manipolano abilmente le ombre e la luce, ci incuriosisce. Come descriveresti il tuo stile?

Il mio stile è figurativo, orientato alla semplificazione e all’astrazione delle forme. Contrappongo linee rette e pure e motivi geometrici alle curve e al caos degli elementi naturali. Il paesaggio urbano moderno, con la sua ortogonalità, si contrappone ai mari selvaggi o alle foreste oscure. Mi piace combinare gli opposti. La penna biro mi permette di creare intricati dettagli, quasi come in un’incisione, e allo stesso tempo posso usare un righello per tracciare griglie o motivi geometrici dalle linee pulite e nette. Questi diversi stili di tratto, resi omogenei dall’inchiostro blu, aprono una gamma di opportunità dal punto di vista grafico che amo esplorare.

 

Cosa ti ha spinto a scegliere una penna a sfera come strumento di elezione?

Uso le penne biro perché mi piace disegnare all’aperto, e ne ho sempre una a disposizione. Non mi piace portarmi dietro molti strumenti e materiali da disegno. L’iconica penna Bic blu è una cosa che tutti hanno a portata di mano. È lo strumento attraverso il quale i sogni prendono forma mentre si scarabocchia su un pezzo di carta. È la stessa penna con cui scarabocchiavo da bambino, riempiendo i bordi dei miei quaderni di scuola. Quando sono al telefono, la uso per prendere appunti e poi inconsciamente creo motivi intricati che si sovrappongono su un post-it. Ero curioso di scoprire come avrei potuto esprimere qualcosa di completamente nuovo utilizzando uno strumento così semplice, creando con il solo inchiostro blu un universo originale.

 

Puoi parlare dell’importanza del doppio scenario blu-bianco nelle tue illustrazioni surreali?

Sono affascinato dal particolare colore blu della penna Bic, con la sua peculiare sfumatura blu-rossa. È un blu che può assumere una grande intensità. È possibile incrociare le linee quasi all’infinito per creare sfumature e profondità, in modo simile a quanto avviene con la tecnica dell’acquaforte. Nelle mie illustrazioni, uso il bianco della carta come riserva per creare contrasto e luminosità, ad esaltare l’importanza del colore blu.
Nel mio modo di percepire, il blu è un colore che è strettamente connesso con il mondo dei sogni. È legato all’acqua, alla notte e al sonno, a quel mondo onirico che affonda le sue radici nel mistero dell’inconscio. L’inconscio si esprime in uno strano linguaggio che possiamo provar a tradurre attraverso l’arte. Secondo me, un disegno, come qualsiasi opera d’arte, è il risultato dell’alchimia che si verifica tra il conscio e l’inconscio. Il blu della penna biro ci è così familiare da essere diventato parte integrante della nostra psiche.

 

Come descriveresti le tue prime impressioni sulle lampade Foscarini quando le hai incontrate per la prima volta?

Le ho trovate belle ed eleganti. Le forme semplici ma allo stesso tempo complesse mi hanno colpito. Più che semplici lampade, ho visto storie di luce in grado di suscitare ispirazione e stimolare le idee in un ambiente. La luce gioca un ruolo importante nel mio disegno in monocromia e spesso lavoro sul contrasto tra le aree chiare e quelle scure. La bellezza della luce è esaltata dalla forza dell’oscurità che la circonda. Ricordo spesso questa citazione di Stanley Kubrick: “Per quanto vasta sia l’oscurità, dobbiamo fornire la nostra luce”.

 

In questa serie di opere, le lampade Foscarini entrano a far parte di ambientazioni oniriche, contribuendo a dare vita (e luce) a mondi immaginari e surreali. Puoi parlarci di come è nata l’ispirazione per questa serie?

Questa serie è intimamente radicata nel surrealismo, nei sogni e nelle fiabe. Quando ero bambino e trascorrevo le vacanze in Bretagna, terra natale di mia madre, ero circondato da una cultura ricca di leggende e di creature bizzarre della mitologia celtica. Spiriti, creature e fate animano le brughiere e i castelli in rovina, suggestioni che stanno alla base del mio lavoro artistico.
Mi piace proiettare gli oggetti contemporanei in realtà surreali, dove cose ordinarie come sedie squadrate, lampade e moderni pavimenti in parquet prendono vita, trasformandosi in strane entità che superano il confine tra sogno e realtà.
Ho iniziato osservando la forma astratta della lampada provando ad immaginare le emozioni che avrebbe potuto evocare in me. A partire da lì, ho elaborato una serie di schizzi, contestualizzando la lampada in vari scenari. Durante il mio processo creativo ascolto spesso musica, che crea uno stato d’animo specifico e talvolta genera idee e ispirazioni inaspettate. Ho pensato a come la lampada poteva assumere il ruolo di elemento principale, di attore, in una strana storia.

 

Strane storie che ricordano le fiabe e che evocano lo stile di Chagall, l’opera di Chagall ha influenzato la sua visione artistica?

Sì, ammiro Chagall per i suoi dipinti figurativi e onirici allo stesso tempo. Mi ispiro anche al surrealismo di René Magritte. Potrei dire che questa serie di disegni incarna lo spirito dei film di Georges Méliès, in particolare “Le Voyage dans la Lune”. È una combinazione di fiaba, poesia e surrealismo. Anche il cinema utilizza la luce come mezzo per creare movimento e storie. Sono molto interessato agli artisti capaci di creare universi e visioni suggestive, come Alfred Kubin, Odilon Redon ed Edward Munch. Da bambino amavo i fumettisti come Hugo Pratt, Moebius, e Roland Topor con il suo bizzarro universo, in particolare nel film d’animazione “La Planète Sauvage”. Mi hanno trasmesso l’amore per la narrazione e per le infinite potenzialità del disegno.

 

Qual è la tua illustrazione preferita della tua serie per “What’s in a lamp?” e perché?

Mi piace “Nuee”, perché mi ricorda il “Piccolo Principe” di Antoine de Saint-Exupéry con i suoi piccoli pianeti e le persone che vi abitano. Anche “Rituals”, perché ci porta, come in “Alice nel paese delle meraviglie”, attraverso lo specchio.

 

Le tue illustrazioni evidenziano una combinazione di semplicità e complessità, dove i tratti di penna minimali aprono la strada a storie affascinanti. Qual è il ruolo della narrazione nell’arte illustrativa?

Adoro raccontare storie e cercare lo straordinario nell’ordinario. Agli inizi ero un fumettista e la mia opera si è gradualmente evoluta verso la creazione di serie di disegni con una forte enfasi sulla dimensione narrativa. È come se questi disegni costruissero insieme una storia, dipingendo un mondo onirico sconosciuto. Il mio principale scopo è quello di divertirmi e tradurre su carta le mie idee e le mie fantasie.

 

Puoi illustrarci il tuo processo creativo? Come riesci a fare in modo che le nuove idee possano fiorire?

Per prima cosa, mentre osservo il soggetto, mi prendo del tempo per scarabocchiare schizzi casuali e tracciare bozze a matita sulla carta. Alcuni schizzi si rivelano “più sinceri”, perché riescono a catturare la dinamicità e lo stimolo di cui ha bisogno il disegno finale. Uno schizzo è qualcosa di affascinante: con pochi tratti, incarna l’energia e gli elementi essenziali del disegno definitivo. In ogni caso, rimango sempre aperto a modificare il disegno man mano che lo porto a compimento. Nuove idee possono emergere durante il processo creativo.
Cerco ispirazione da diverse fonti: dalla lettura, dalla musica e talvolta anche dai sogni. Un disegno spesso porta alla creazione di un altro. In una serie di opere, i miei disegni seguono una certa logica, a volte narrativamente collegati e altre volte invece in contrasto con il lavoro precedente. A volte i disegni formano addirittura delle “mini-serie”, come nel caso della serie senza titolo “Meditazione 1,2,3,…”.
La lettura dei libri dello psichiatra Carl Gustav Jung è per me fonte di grande interesse. I suoi studi sull’inconscio e sui sogni mi affascinano. Il suo approccio è profondamente creativo, ricco di idee e visioni. Prende in considerazione numerose immagini e simboli della storia dell’arte e del nostro “inconscio collettivo”. Per esempio, cosa significano per noi figure come l’albero, l’acqua o il sole? La sua indagine sulla mitologia e sugli archetipi è straordinariamente affascinante.

 

Cosa significa per te design?

Il design è per me infondere spirito nella materia. È il respiro che dà vita al materiale grezzo. È l’atto di riempire gli oggetti di amore, con la speranza che lo riflettano agli occhi di tutti. Tutti noi vorremmo imbatterci in oggetti che abbiano un’anima e storie da raccontare.

Segui il progetto “What’s in a lamp?” sul canale Instagram ufficiale @foscarinilamps
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Un’immersione nell’affascinante mondo della watercolor art di Maja Wronska nella nuova uscita per “What’s in a Lamp?” il progetto di Foscarini che trasforma il feed Instagram @foscarinilamps in una galleria d’arte virtuale.

Il progetto “What’s in a Lamp?” di Foscarini si arricchisce di un nuovo capitolo che vede protagonista Maja Wrońska (@majatakmaj), una talentuosa artista polacca specializzata nella pittura ad acquerello. I suoi affascinanti dipinti ritraggono architetture europee e si distinguono per il perfetto equilibrio tra linee e tratti scenografici e i delicati cromatismi dell’acquerello. Maja non è solo un’artista ma anche un architetto, caratteristica che ne contraddistingue l’ispirazione, rendendola particolarmente originale e distintiva.

In questo nuovo capitolo del progetto “What’s in a Lamp?” di Foscarini, Maja Wrońska ha creato una sorprendente serie di opere artistiche che mettono in luce il potere trasformativo delle lampade Foscarini all’interno di spazi architettonici. Dipinti ad acquerello animati che destano meraviglia e riescono a catturare la vita, le emozioni, il trascorrere del tempo nelle architetture urbane, e nei quali le lampade diventano un elemento significativo, un punto focale – soprattutto al sopraggiungere del buio.

Ciò che rende le opere di questa serie accattivanti è il modo in cui prendono vita quando la città passa dal giorno alla notte: gli interni degli edifici, visti dall’esterno, diventano protagonisti quando le lampade Foscarini li illuminano nella notte.

Parlaci un po’ di te e del tuo background. Come ti sei avvicinata all’arte e cosa ti spinge a creare?

Sono Maja Wrońska, architetto e pittrice ad acquerello di origine polacca. Fin da quando ero bambina, mia madre, che è anche lei un architetto, mi permetteva di usare i suoi materiali professionali per dipingere e disegnare. In Polonia, se si vuole intraprendere gli studi di architettura, si deve sostenere anche un esame di disegno. Così, in seguito, ho anche frequentato corsi di disegno per prepararmi a questo esame. Una volta arrivata all’università, il disegno e la pittura sono diventati parte integrante del mio programma di studi. In quel periodo è cresciuto il mio interesse per la pittura ad acquerello e ho pensato di creare un profilo su DeviantArt per condividere i miei dipinti. Con mia grande sorpresa, il profilo è diventato popolare e le persone hanno iniziato a chiedermi se i miei dipinti fossero in vendita. Dopo la laurea, ho avviato la mia attività, come architetto Maja Wrońska, progettando architetture con mia madre e, allo stesso tempo, dedicandomi ai miei acquerelli.

 

Qual è la cosa che ti piace di più disegnare?

L’architettura mi affascina e appassiona da sempre.

 

In che modo Maja Wronska architetto e Maja Wronska pittrice coesistono e si influenzano a vicenda?

Mi considero un architetto che ama anche dipingere ad acquerello. Il processo di progettazione di un immobile può richiedere settimane o addirittura mesi, mentre la creazione di un acquerello richiede poche ore. Questo mi permette di completare progetti artistici stimolanti mentre lavoro come architetto.

 

In questo progetto realizzato per Foscarini vediamo delle splendide immagini di architetture suggestive, animarsi e riempirsi di emozioni e vita. Cosa ti ha attratto verso la pittura ad acquerello e come ti è venuta l’idea di animarli?

Grazie! Anche io sono entusiasta di come si è concretizzato il nostro progetto. In quanto architetto, per modellare e renderizzare l’architettura ho studiato Photoshop e i programmi 3D. Ho pensato che avrei potuto combinare tecniche artistiche tradizionali come il disegno e l’acquerello con tecniche moderne come l’animazione e la realtà aumentata. Quando Instagram ha iniziato a promuovere i reel, ho deciso di sperimentare animando i miei acquerelli e caricandoli sull’app Artivive per vedere l’effetto della realtà aumentata sulle mie creazioni artistiche tradizionali. La prima volta che ho iniziato ad animare i miei acquerelli è stato per un concorso di una casa automobilistica. Anche se il concorso è stato vinto da qualcun altro, la curiosità di vedere come sarebbero stati gli altri miei acquerelli animati in questo modo mi ha spinto a continuare a esplorare il concetto.

 

Qual è il processo creativo all’origine delle tue opere d’arte?

Il mio intento è quello di dipingere i luoghi che amo e di catturare la bellezza che percepisco.
Il processo creativo inizia individuando un edificio che mi colpisca, ne faccio uno schizzo a matita e poi aggiungo il colore ad acquerello. Poi mio marito lo digitalizza, assicurandosi che la scansione restituisca l’opera originale il più fedelmente possibile. Alla fine, utilizzando Photoshop, creo un’animazione in loop di fotogrammi in gif e mp4.

 

In questa serie di artwork hai saputo catturare il potere trasformativo delle lampade Foscarini all’interno di uno spazio, sia da spente sia quando si accendono, diventando punto focale. Puoi raccontarci qualcosa in più sull’ispirazione da cui è nata questa serie?

Questa serie è uno sviluppo in continuità con le mie animazioni precedenti, nelle quali si vedono città e luoghi nella transizione dal giorno alla notte. In un primo momento ho animato le auto, poi ho iniziato a incorporare le luci degli edifici che si accendono e si spengono. Con il progetto Foscarini, ho voluto spingere l’esplorazione all’interno degli spazi architettonici e mettere in evidenza come le lampade al loro interno possano trasformare l’atmosfera.

 

Qual è la tua preferita tra le opere della tua serie “What’s in a lamp?” e perché?

Dal punto di vista della pittura ad acquerello, la mia preferita è quella che include la lampada da terra rossa Tobia. Da una prospettiva di animazione, invece, mi piace molto quella in cui un palazzo con grandi finestre è illuminato da una cascata di lampade a sospensione Gregg.

 

Quali sono le tue fonti di ispirazione? C’è qualche artista in particolare che è per te un punto di riferimento?

Light, in general, is a major inspiration for me. I find it fascinating to observe how sunlight interacts with building facades and how buildings appear when interior lights are on. As for favorite artists, I admire Van Gogh and follow contemporary illustrators on social media, such as Pascal Campion.

 

Che cos’è la creatività per te?

Per me la creatività è il processo che porta a creare qualcosa di fresco e stimolante da materiali disponibili, trasformandoli. Immaginazione ed originalità sono caratteristiche indispensabili per poter generare creazioni innovative e ricche di significato.

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Il progetto che trasforma il feed Instagram @foscarinilamps in una galleria d’arte virtuale si arricchisce di una nuova interpretazione creativa. È Federico Babina, italiano di nascita e spagnolo di adozione, il quarto artista chiamato ad interpretare le collezioni Foscarini.

 

Federico Babina, architetto e illustratore, è conosciuto per i mondi surreali, ispirati prevalentemente all’architettura e al design, che è capace di creare con le sue illustrazioni e animazioni. Le sue serie sono uniche, distintive, contraddistinte da uno stile che le rende immediatamente riconoscibili. Uno stile che si esplica nei dettagli, nel saggio equilibrio di colori e proporzioni e nei pattern grunge ma anche – e soprattutto – nella capacità di creare e sollecitare connessioni inaspettate e sorprendenti che colpiscono occhi, mente e cuore di chi guarda.

Nella sua nuova serie “Lux Like”, parte del progetto “What’s in a lamp?” di Foscarini, Federico Babina si è divertito a cercare e riconoscere animali nelle forme di alcune delle lampade di Foscarini. Come in una pareidolia, le ha ridotte a forme elementari – cerchi, rettangoli, triangoli e linee – e le ha trasformate in animali con carattere ed espressività che vivono, parlano e respirano in un universo parallelo, una sorta di zoo del design.

Un esercizio di creatività e fantasia semplice ed efficace che sviluppa un “pensiero elastico”: non si vede una lampada e si interpreta come tale, ma si scorge l’elefante che la racchiude. Una serie di illustrazioni dove Federico Babina gioca con serietà attorno alle forme e ai colori. Dove tutto quello che appare può non essere ciò che sembra. Lampade che compongono uno zoo di Foscarini dove gli animali sono fatti e costruiti di design.

Raccontaci qualcosa di te e del tuo percorso: quando hai iniziato a disegnare e come hai sviluppato il tuo stile distintivo?

Sono Federico Babina (dal 1969), architetto e graphic designer (dal 1994) vivo e lavoro a Barcellona (dal 2007), ma soprattutto sono una persona curiosa (da sempre). Ogni giorno cerco di ritrovare un modo di osservare il mondo attraverso l’innocenza degli occhi di un bambino. I bambini sono in grado di avere una visione delle cose totalmente disinibita e senza il condizionamento dell’esperienza. Quando ero bambino volevo essere architetto e adesso che sono architetto mi piacerebbe a volte tornare bambino. Mi piace cercare di raccontare il mondo che vedo attraverso diverse tecniche espressive. Mi piace la ricchezza del linguaggio e la diversità delle sue forme. Sono nato con le illustrazioni delle favole, sono cresciuto con i tratti dei fumetti e sono maturato con il disegno d’architettura. L’illustrazione fa parte del mio mondo immaginato ed immaginario. Mi sforzo perché nei miei lavori ci sia il rigore dell’architettura, la libertà di pittura, il ritmo e la pausa della musica e il mistero magico del cinema. Provare a mescolare linguaggi apparentemente eterogenei che però si comunicano tra di loro.

 

Come convivono e come si influenzano il Federico Babina Architetto e l’Illustratore?

Un architetto deve essere un buon illustratore. La capacità di una comunicazione visiva è uno strumento imprescindibile. Il disegno è la prima maniera di dare forma ad una idea. Le idee si scolpiscono si modellano e si trasformano attraverso l’illustrazione. Non mi spoglio dei vestiti d’architetto per indossare il costume d’illustratore. Il comune denominatore dei miei lavori sono “io”. Il mio approccio e la mia maniera di lavorare non cambia in base al lavoro. Mi piace dipingere e mi piace fare fotografie tanto quanto disegnare e scrivere. Credo che ci sia una certa coerenza espressiva in ognuno di noi indipendentemente dal mezzo che si utilizza. Trovo analogie, similitudini, affinità, e infinite relazioni tra le diverse forme espressive. Che si tratti di una illustrazione, di un oggetto di design o di un edificio il mio processo creativo è simile e segue regole comuni e le stesse traiettorie. Il processo creativo di una composizione architettonica risponde a meccanismi che muovono e mettono in movimento la macchina di qualsiasi opera intellettuale. Alcune volte sono architetto con la passione per l’illustrazione ed altre sono un illustratore con la passione per l’architettura.

 

Come è nata la collaborazione con Foscarini?

Sono stato contattato da Foscarini e mi è stato chiesto di trovare una forma personale di rappresentare una idea di un prodotto più che un oggetto in se. Il tutto con assoluta libertà espressiva. Una collaborazione di questo tipo rappresenta sempre una sfida stimolante. Gli oggetti esistono e si tratta di trovare la maniera di suggerirne un punto di osservazione alternativo.

 

In questo progetto per Foscarini hai unito ironia e tenerezza e costruito un inaspettato «zoo» a partire dalle silhouette iconiche delle lampade della collezione Foscarini. Ci racconti qualcosa di più dell’ispirazione dietro a questa serie?

Il progetto si chiama LUX LIKE e lavora sulla percezione. L’idea è quella di trasformare la percezione dell’oggetto di design. La nostra mente è capace di raccogliere registrare e archiviare milioni d’immagini. Una cosa che sempre mi interessa è l’associazione che siamo in grado di fare tra queste immagini. Come nel “piccolo principe” vedere oltre il disegno di un cappello e scorgere la sagoma di un boa che digerisce un elefante. In questo lavoro per Foscarini 9 lampade si trasformano in animali con carattere ed espressività che vivono, parlano e respirano in un universo parallelo, una sorta di zoo del design. Come in una Pareidolia del design mi sono divertito a cercare e riconoscere animali nelle forme di alcune delle lampade di Foscarini: è un esercizio di creatività e fantasia semplice ed efficace che sviluppa un “pensiero elastico”. Il nostro sguardo non è capace di cogliere l’invisibile e la nostra ragione meccanicamente trae le proprie conclusioni ed emette i propri rigorosi giudizi basandosi esclusivamente sull’evidenza di un’apparenza. Ho cercato di non inviare al cervello la informazione razionale perché riconosca attraverso la conoscenza ma lasciarlo libero di cercare una associazione istintiva. Non vedere una lampada ed interpretarla come tale ma scorgere l’elefante che la racchiude. LUX LIKE è una serie di illustrazioni dove gioco con serietà con i volumi i colori e le forme. Dove tutto quello che appare può non essere ciò che sembra. Lampade che compongono uno zoo di Foscarini dove gli animali sono fatti e costruiti di design.

 

Qual è/sono l’illustrazione/le illustrazioni che ti piacciono di più in questa serie e perché?

Non posso scegliere tra le mie illustrazioni, è come chiedere di scegliere tra i figli. Quando lavoro in una serie considero le singole illustrazioni come tasselli di un mosaico generale che rappresenta un concetto ed una idea. Sono pezzi di un puzzle complessivo, nessuno è fondamentale ed allo stesso tempo tutti nel loro insieme lo sono. L’importante è la composizione generale che tutti i pezzi disegnano.

 

Nelle tue illustrazioni e animazioni geometrie semplici si sommano a creare delle composizioni capaci di raccontare, in uno sguardo, delle storie che colpiscono occhi, mente e cuore di chi guarda. Puoi parlarci della parte ‘narrativa’ del tuo processo creativo?

Come diceva Bruno Munari: Complicare è facile , semplificare è difficile. La semplicità è la cosa più difficile da raggiungere. Per semplificare bisogna togliere e per togliere bisogna sapere quali sono le cose superflue. La cosa che cerco sempre nel mio lavoro è un filo narrativo. Un racconto che ti accompagna dentro una storia, come una porta che si apre in un universo parallelo ed offre allo spettatore alcuni elementi e strumenti per continuare la sua storia. Il potere della illustrazione è quello di lasciare una certa libertà alla interpretazione. Io comincio le storie e chi le guarda le continua e avolte le completa.

 

Quali sono i tuoi riferimenti nel mondo dell’arte e dell’illustrazione? E quali gli architetti che apprezzi maggiormente?

Negli anni mi sono imbevuto e nutrito della cultura che mi circondava. Siamo come “frullatori” che mescolano e combinano ingredienti differenti per elaborare un composto personale. Non c’è una sola figura che considero ispirativa. Sono molte le persone che mi hanno ispirato, aiutato, sorpeso e guidato. Non mi piace fare classifiche di questo tipo, mi sento come un mosaico in processo dove molti, nel bene o nel male, sconosciuti o conoscuti, hanno contribuito e stanno contribuendo alla composizione generale e al posizionamento di ogni singolo pezzo. Non ho realmente riferimenti e modelli precisi. Le mie fonti spaziano dal mondo della grafica all’arte al mondo dell’architettura passando per i fumetti e la pubblicità. Ho molti amanti ma non mi sono mai sposato con nessuno…

 

Le tue opere richiedono creatività e capacità di guardare la realtà da prospettive diverse e originali: come riesci a mantenere la tua freschezza per fare spazio alle idee? Quali sono le tue fonti di ispirazione?

Non credo molto nell’ispirazione. Le idee sono lì che ci aspettano basta saperle vedere. Cerco sempre un elemento generatore, un punto di partenza per poter dare forma e scolpire una idea. Alcune volte la immagine ruota come sospinta da una forza centrifuga attorno a questo elemento centrale e altre volte prende direzioni differenti e sorprendenti. Non esiste una norma nel mio procedimento creativo, può essere un processo lento e laborioso o subitaneo e intuitivo. Cercare ispirazione e idee è un lavoro quotidiano e costante. E’ come camminare verso un luogo senza sapere come arrivarci. Alcune volte la strada si trova facilmente altre volte ci si perde durante il percorso. L’importante è voler arrivare. Cerco di avere una visione trasversale delle cose. Provare a capovolgere per leggere le forme senza l’inibizione dell’esperienza. Provare a guardare il mondo a testa in giù. Il mondo non cambia, si modifica solo la prospettiva di guardare le cose per rivelare i vuoti, i silenzi e le sorprese nascoste tra le forme. Cerco di ascoltare ed osservare, attivare tutti i sensi per poi filtrare le informazioni ed elaborare un risultato personale.

 

Qual è il tuo soggetto preferito da disegnare?

L’architettura è spesso la protagonista. Mi piace cercare (im)possibili relazioni tra l’architettura e altri mondi e scovarla in “luoghi sensibili”. Mi piace trovare l’architettura nascosta in universi paralleli, in questo senso, l’illustrazione mi aiuta a esplorare linguaggi alternativi. Nelle mie immagini cerco di instaurare di un dialogo immaginario ed immaginato tra differenti discipline. I fili che uniscono e intrecciano le relazioni possono essere sottili e trasparenti o robusti e corposi. Una trama eterogenea e fantasiosa che collega l’architettura con mondi apparentemente differenti in un “unicum” illustrato. Cerco di trovare l’architettura nascosta e farla parlare una lingua differente per comunicare con un pubblico che può essere “straniero” all’architettura.

 

Hai una ritualità nel disegnare?

Sono più prolifico alla mattina ed ho più idee di notte però in generale non ho una regola fissa. Le cose possono cambiare e sono sempre alla ricerca di nuovi ingredienti per aggiungere nuovi sapori alle mie immagini. Io cambio continuamente, evolvo vado avanti e a volte faccio passi indietro e i miei progetti seguono i miei cambi e le mie fluttuazioni. Mi piace sentirmi libero, libero di esprimermi senza dover rinchiudermi nella “prigione di uno stile o di forma.” Quando creo le illustrazioni uso sempre un collage di tecniche e programmi diversi. Dal disegno a mano al disegno vettoriale e programmi di modellazione 3D. Questi diversi ingredienti mi permettono di ottenere la miscela e l’atmosfera desiderata. Tutte le tecniche sono un utile strumento di lavoro. Mi piace intersecare ed intrecciare diverse metodologie per tessere la tela grafica, il risultato è sempre più prezioso.

 

Cos’è per te la creatività?

Una domanda difficile. La creatività è come fare un regalo. Bisogna sceglierlo con cura. Una volta deciso quale sarà il regalo bisogna impacchettarlo. La scatola è importante, non solo lo contiene e lo protegge ma può o meno svelarne il contenuto. La carta che lo avvolge è come la pelle di un’opera creativa. E’ la prima cose che si vede nel momento in cui si riceve un regalo. Infine il nastro che è come un vezzo che offre un tocco di leggerezza ed eleganza. Chi osserva un opera creativa di qualsiasi tipo è come chi riceve un regalo. Lo scarta lo apre e alla fine scopre la sorpresa. A volte piace e a volte no……

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Animazioni ipnotiche, al confine tra realtà e fantasia: è questa la cifra stilistica di Oscar Pettersson, 3D motion artist di Stoccolma che partecipa al progetto “What’s in a lamp?” con una serie inedita di coinvolgenti loop infiniti.

Prendendo ispirazione dalle storie che hanno portato all’ideazione e creazione di alcuni dei modelli più amati della collezione, Oscar Pettersson ha dato vita alle lampade, raccontandone il design attraverso affascinanti video a ciclo infinito.

È così che il cuore luminoso della lampada Satellight di Eugeni Quitllet diventa un frammento di luce che fluttua, alla ricerca della libertà. Le Soleil di Garcia Jimenez gira su sé stessa, mentre mantiene magicamente in equilibrio una biglia di metallo, lungo il bordo di una delle sue inconfondibili fasce irregolari. In un altro video, è Magneto di Giulio Iachetti ad interagire con la sua caratteristica sfera magnetica, quasi a ricordare un incantatore di serpenti che ipnotizza il suo cobra, mentre un gruppo di Twiggy di Marc Sadler danzano, in una graziosa coreografia che mette in evidenza la flessibilità del suo stelo. Il dondolio ritmico di un pendolo fatto di lampade a sospensione Aplomb di Lucidi e Pevere incanta e culla, mentre una serie di sfere di luce volano nello spazio come molecole e, scontrandosi, si fondono a creare la forma organica e irregolare di Gregg (design: L+R Palomba).

Vuoi scoprire di più sulla creatività di questo talentuoso artista? Non perdere la nostra esclusiva intervista.

Raccontaci l’inizio della tua carriera come artista: come sei entrato nell’arte digitale e cosa ti motiva a creare?

Studiavo in una scuola chiamata Hyper Island quando ho capito che l’animazione era un ambito nel quale volevo eccellere. Ho iniziato come animatore 2D ma poi ho iniziato a orientarmi sempre di più verso il 3D, ed ora sono un animatore 3D da ormai 7 anni. La sensazione che provi quando stai lavorando su qualcosa e ti rendi conto che ne sta risultando qualcosa di buono è impagabile. È quella sensazione che mi motiva a creare, creare e creare, finché non creo finalmente qualcosa di buono. In poche parole: creare qualcosa di bello, mi fa sentire bene.

 

Le tue animazioni in loop sono allo stesso tempo delicate e ipnotiche. Qual è il processo creativo dietro le tue opere d’arte?

Il mio processo è iterativo. Creo svariate veloci animazioni in 3D, mettendo a terra diversi concept e idee. Poi ne scelgo un paio e ci rilavoro finché qualcosa di interessante inizia ad emergere.
Di solito si può identificare un “problema visuale” a cui corrisponderà necessariamente una “soluzione visuale”. Se si riesce a identificare il problema, allora si può creare una soluzione… una soluzione che sia bella da guardare! c’è un problema visivo e una soluzione visiva. Se riesco a trovare un problema, posso creare una soluzione – una soluzione che è bella da guardare. Penso che dietro ad ogni problema si nasconda sempre un concetto interessante che va scoperto.

 

Come hai sviluppato il tuo stile distintivo scegliendo di rappresentare queste situazioni surreali che superano i confini di ciò che è fisicamente possibile?

Il mio stile nasce da quello che mi piace creare. E ogni opera che creo, mi aiuta a capire sempre di più la direzione in cui voglio continuare a creare. Il timing perfetto esiste raramente nel mondo reale, quindi io lo creo per i miei spettatori, perché apprezzino e godano della perfezione, a ripetizione, all’infinito.

 

Parlando delle tue fonti di ispirazione: il tuo lavoro implica un approccio creativo e la capacità di guardare la realtà da una prospettiva diversa e originale. Come ci riesci?

Traggo molta ispirazione dall’ingegneria e dalla meccanica. Poi combino quella complessità con la semplicità e cerco di rappresentare delle contraddizioni, che so, l’abbracciare un cactus, rendere il metallo morbido o delle piume pesanti. Durante tutto il processo sono sempre aperto a tornare indietro, ripetere, modificare il procedimento in ogni modo possibile e in ogni momento. Questa modalità, di solito, porta a trovare prospettive nuove, diverse, creative.

 

Cosa ti ha ispirato nel progetto “What’s in a lamp?” con Foscarini?

Il design dei prodotti è incredibile, ho solo dovuto trovare un modo interessante per rappresentare le loro storie e caratteristiche distintive attraverso l’animazione. Il buon design è sempre fonte di ispirazione per un animatore.

 

Qual è la tua animazione preferita della serie e perché?

Dal punto di vista dell’animazione, mi piace Magneto e dal punto di vista estetico sceglierei il video rosso con Twiggy.

 

Cos’è per te la creatività?

La creatività? È trovare soluzioni interessanti a problemi interessanti.

Segui il progetto “What’s in a lamp?” sul canale Instagram ufficiale @foscarinilamps
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Ironico e giocoso, capace di guardare dove gli altri non guardano: vi presentiamo Noma Bar, protagonista del secondo capitolo del progetto “What’s in a lamp?”. Nelle sue illustrazioni si è ispirato alle lampade più iconiche di Foscarini e le ha rese protagoniste di immagini minimaliste che, attraverso un uso sapiente del negative space, celano storie ed emozioni che vengono svelate non appena si guarda più attentamente ai dettagli.

Noma Bar è senza dubbio uno degli illustratori più innovativi della scena internazionale contemporanea. Di origini israeliane, vive e lavora a Londra ed è conosciuto a livello internazionale per il suo stile originale, che si colloca all’incrocio tra illustrazione, arte e graphic design. Pochi colori, linee semplici e un perfetto equilibrio formale raccontano storie, nascondendole nei dettagli. Osservando le sue opere si apprezza sempre un’insolita svolta creativa: la mente è portata a notare elementi secondari, che l’occhio non coglie immediatamente. Sono illustrazioni che richiedono un momento di attenzione in più, perché lo sguardo non è tutto e c’è qualcosa che va al di là: la chiave è vedere ciò che gli altri non vedono, guardare dove gli altri non stanno guardando. Le sue opere sono apparse in molte riviste, copertine e pubblicazioni, tra cui The New Yorker, The New York Times, The Economist, Internazionale, Wallpaper*, Esquire e The Guardian, solo per citarne alcune.

In questa serie per il progetto “What’s in a lamp?” – che trasforma il feed Instagram @foscarinilamps in una galleria d’arte virtuale, uno spazio aperto ad esponenti noti ed emergenti nel mondo delle arti visive, ispirati dalle collezioni Foscarini – le nostre lampade più iconiche diventano personaggi all’interno dell’universo creativo di Noma. Attraverso un abile uso della tecnica del “negative space” le lampade sono protagoniste in sei immagini minimaliste che, ad osservarle da vicino, rivelano molteplici livelli di interpretazione, storie, sensazioni. Espressioni artistiche complesse, ma di una sorprendente semplicità, un tratto comune tra l’approccio dell’artista e quello di Foscarini: liberare l’essenziale per emozionare e catturare lo sguardo.

In questa intervista, Noma Bar ci racconta qualcosa in più della sua arte e della collaborazione con Foscarini.

Raccontaci l’inizio della tua carriera come artista. Come hai cominciato? Hai sempre saputo che era questo, quello che volevi fare?

Diventare un artista era il mio sogno d’infanzia. Ho disegnato fin da quando mi ricordi, da bambino stavo sempre a disegnare, fare lavoretti, sperimentare con l’arte e la manualità. Mi divertivo a ritrarre le persone intorno a me, i miei familiari, i vicini, gli amici… È sempre stato molto chiaro nella mia mente che questo era ciò che mi piaceva e volevo fare nella mia vita adulta.
Ho studiato Graphic Design e mi sono laureato alla Bezalel Academy of Arts and Design nel 2000. Subito dopo la laurea mi sono trasferito a Londra ed ho iniziato a inviare cartoline con le mie illustrazioni ad alcuni editori. In questo modo ho ottenuto poco dopo il mio primo incarico.

 

Come descrivi il tuo lavoro, che si colloca all’incrocio tra illustrazione e graphic design? Una volta hai definito la tua arte “brief illuminations” (“illuminazioni sintetizzate”), puoi dirci di più a riguardo?

Definirei il mio lavoro “Graphic Art” perché l’estetica è grafica, ma l’essenza è più vicina all’arte e all’illustrazione. I miei progetti personali invece li considero semplicemente “art” e quando mi viene chiesto di creare un’opera sulla base di una specifica storia o brief, allora preferisco il termine “illustrazione”.
“Brief illuminations” è il mio modo di distillare e semplificare questioni complesse con un semplice disegno.

 

In questo progetto le lampade Foscarini fanno parte di una serie che indaga il ruolo delle lampade nel trasformare uno “spazio” facendolo diventare la tua casa. Ci sono oggetti che ti fanno sentire a casa, ovunque tu sia?

Mio padre era un boscaiolo e durante la mia infanzia usava questa cartolina come lettera di accompagnamento. Mi è sempre piaciuta questa immagine e la dualità grafica del tronco d’albero e delle gambe del bambino.
Questa cartolina è sulla mia scrivania e mi fa sicuramente sentire a casa.

Parlando delle tue fonti di ispirazione, hai detto una volta “Guardo dove molte persone non guardano”. Come hai iniziato a vedere le cose da una prospettiva diversa?

Non penso che possa essere identificato un unico momento, è un’evoluzione che diventa un approccio alla vita, una costante ricerca per scoprire lo straordinario nell’ordinario.
Prendiamo la cucina come metafora: in tal caso si tratta di cercare di scoprire nuovi sapori usando l’alimentazione quotidiana che ci è familiare. Non saprei spiegare come succede.

 

Nelle tue opere ci sono concetti complessi, resi con una sorprendente semplicità. Foscarini ha un approccio simile al design del prodotto, mirando a liberare l’essenziale e arrivare dritto al cuore. Qual è il processo creativo per sviluppare le tue illustrazioni minimali?

Quando inizio a lavorare su un brief specifico, la prima sensazione che provo è come se dovessi entrare in un negozio di dolciumi per scegliere una sola caramella. Cerco di raccogliere le idee innanzitutto ad Highgate woods (proprio di fronte al mio studio), mi siedo in mezzo al bosco, leggo, faccio schizzi delle mie idee. Poi rientro in studio e disegno a computer le idee migliori.

 

Qual è il tuo soggetto preferito da disegnare?

Questa è una domanda facile: disegno continuamente le persone e i volti in cui mi imbatto.

 

Il tuo lavoro implica molta creatività. Come fai a mantenerla fresca?

Sono costantemente alla ricerca di creatività, di nuove idee. Cammino molto e trascorro, ogni giorno, diverse ore immerso nella natura, osservo come il bosco si trasforma quotidianamente e nel ciclo delle stagioni. Ogni giorno si assomiglia, ma ogni giorno è diverso e sono queste piccole differenze quelle in cui focalizzo la mia attenzione.

 

Cosa ti ha ispirato in questo progetto con Foscarini? Quali sono le illustrazioni che ti piacciono di più e perché?

Amo le silhouette belle e senza tempo, è stata una fortuna avere le meravigliose silhouette iconiche di Foscarini con cui lavorare. Il confronto con Foscarini è iniziato parlando di “casa tua”, che mi ha ispirato a trovare situazioni familiari, intime, quotidiane – dentro e fuori casa – in cui le lampade Foscarini si integravano magnificamente.

 

Qual è/sono l’illustrazione/le illustrazioni che ti piacciono di più in questa serie e perché?

Il cane Lumiere è probabilmente la mia preferita. Penso che sorprenda voi (così come sorprende me) rendersi conto che il corpo di “Lumiere” diventa il naso di un cagnolino, la base della lampada la sua bocca e la luce che produce il pelo del muso.

 

Cos’è per te la creatività?

Qualche volta mi è stato chiesto di illustrare la Creatività. L’immagine che preferisco per descriverla è questa che ho creato: un’oca con la testa infilata nella sabbia, che simboleggia l’ignorare, ma allo stesso tempo, la testa dell’oca spunta fuori e guarda – a significare l’importanza del non essere completamente fuori dal mondo. Succedono così tante cose, emergono continuamente nuove tendenze, ed io mi sento un po’ come questa oca: metto la testa nella sabbia per ignorare le rapide trasformazioni del gusto visivo, ma in realtà, la seconda testa dell’oca, mi ricorda di rimanere sintonizzato e tenere sempre fuori le antenne.

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Spazio alla creatività nella nuova social strategy di Foscarini: Instagram diventa un palcoscenico in cui energia, libertà creativa e ricerca sono protagoniste. What’s in a lamp? è un progetto di storytelling per immagini, animazioni e video che prende forma in uno spazio artistico contemporaneo, seguendo come filo narrativo conduttore il brand Foscarini, la sua essenza, le sue ispirazioni e le sue collezioni.

Sempre alla ricerca di soluzioni originali e distintive – non solo nell’ambito del prodotto, ma anche nel modo di raccontarsi – Foscarini ripensa le convenzioni comunicative nei social media tipiche del settore ed evolve in modo inedito e distintivo il proprio storytelling, trasformando il feed del canale Instagram @foscarinilamps in un luogo virtuale che dà voce ad esponenti noti o emergenti del mondo delle arti visive, con l’obiettivo di regalare bellezza, divertimento, stupore.

Un progetto caleidoscopico in cui artisti e content creator internazionali di diversa estrazione – dall’arte digitale alla fotografia, dall’illustrazione alla motion art – sono invitati a lasciarsi ispirare e “giocare” con le lampade Foscarini, ognuna caratterizzata da stili, materiali, designer diversi tra loro.

“Foscarini è un’azienda che vive di idee, di curiosità, di voglia di sperimentarci e di sperimentare. Cercavamo una strada più distintiva, più nostra, per raccontarci sui canali social – una soluzione nuova che, confrontandosi con i limiti e le caratteristiche del mezzo, ci permettesse di dare spazio alla creatività, raccogliere stimoli e metterli in relazione, scambiando conoscenze e combinando esperienze. Questo nuovo progetto digitale darà spazio a contenuti originali che, attraverso suggestioni visive in cui la nostra luce è protagonista, ci faranno scoprire la potenza delle idee”

CARLO URBINATI,
/ Presidente e fondatore di Foscarini

Apre la scena Luca Font – poliedrico artista italiano – con una serie inedita di illustrazioni di ispirazione modernista dai tratti geometrici e vivaci, seguito dal noto illustratore israeliano Noma Bar – maestro del Negative Space. E poi: Federico Babina, Oscar Pettersson, Maja Wronska, Kevin Lucbert, Alessandra Bruni, Luccico, Stefano Colferai, Fausto Gilberti e tanti altri artisti. Voci, stili e interpretazioni uniche per raccontare pensieri, sensazioni ed emozioni suscitate dalle lampade Foscarini, per sottolinearne le forme, l’idea alla base del loro concept o l’effetto che queste producono in uno spazio. Un calendario denso di visioni inconsuete sul tema della luce; un percorso creativo espressione di una riflessione sul ruolo che giocano le lampade Foscarini nel trasformare e definire un’idea personale di casa.

Segui il progetto sul canale Instagram ufficiale @foscarinilamps e lasciati trasportare dalla magia e dalle suggestioni delle diverse interpretazioni creative.

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Writer, illustratore, tatuatore: l’universo visivo di Luca Font si compone di media eterogenei, accomunati da uno stile distintivo che denota uno spiccato gusto per l’astrazione, il design grafico e la tipografia. Nella serie di illustrazioni realizzate per il progetto “What’s in a lamp?” di Foscarini, Font racconta visivamente il ruolo della luce e delle lampade Foscarini nel definire e conferire personalità ad un ambiente.

Luca Font è uno degli artisti parte del progetto “What’s in a lamp?”, che trasforma il feed del canale Instagram @foscarinilamps in un luogo virtuale che dà voce ad esponenti noti o emergenti del mondo delle arti visive, che sono invitati a lasciarsi ispirare e “giocare” con le lampade Foscarini, ognuna caratterizzata da stili, materiali, designer diversi tra loro.

Writer, illustratore, tatuatore: Luca Font, nato a Bergamo nel 1977, vive tra Milano e New York, la metropoli culla del Graffitismo, ed è proprio la passione per i graffiti che ne segna gli esordi come artista. Da treni e muri, ai tatuaggi, alla carta, all’arte digitale: l’universo visivo di Luca Font si compone di media eterogenei, accomunati da uno stile trasversale e distintivo che denota uno spiccato gusto per l’astrazione, il design grafico e la tipografia. Ciò che caratterizza la sua produzione consiste in una costante ricerca della sintesi visiva, oltre ad un tratto grafico che fonda minimalismo ed espressività.

Nella serie di illustrazioni realizzate per Foscarini, Font racconta visivamente il ruolo della luce e delle lampade Foscarini nel definire e conferire personalità ad un ambiente, sia di notte – quando accese – sia di giorno – quando spente. Sei illustrazioni compongono una sorta di ciclo circadiano in cui la casa sviluppa una propria personalità tramite illusione pareidolitica.

Raccontaci com’è iniziata la tua carriera di artista, da dove è partito tutto? Hai sempre saputo che volevi fare questo nella vita?

Ho cominciato a disegnare da piccolo e mi sono dedicato fin da adolescente ai graffiti, che per molti anni sono stati il mio principale output creativo. Non ho mai ricevuto un’educazione artistica formale e non avevo di certo considerato la possibilità di vivere disegnando fino a quando mi si è presentata quasi per caso l’occasione di imparare a tatuare, che ho afferrato al volo. Nel 2008 ho lasciato il mondo della comunicazione senza pensarci due volte ed è cambiato tutto.

 

Il tuo segno grafico è molto visibile, riconoscibile e distintivo. Come descriveresti il tuo stile e come si è evoluto, grazie alle esperienze che hai avuto?

Sono cresciuto circondato dalle grafiche dei videogiochi prima e delle tavole da skate poi, mia madre insegnava storia dell’arte ma ho sempre preferito quelle illustrazioni così potenti ed evocative alle pale d’altare del Mantegna. Questo ha con tutta probabilità contribuito all’approccio sempre molto grafico che ho sviluppato con i graffiti e poi con tutto il resto. Sintesi, leggibilità e impatto visivo immediato sono gli obiettivi che mi pongo ogni volta che disegno qualcosa, che sia un tatuaggio grande un palmo o un muro lungo trenta metri, e per quanto lavori su molti media diversi tra di loro cerco sempre di utilizzare un linguaggio formale che renda coerente la mia produzione.

 

In questo progetto hai indagato il ruolo delle lampade Foscarini nel trasformare lo spazio – notte e giorno, sia quando accese, sia quando spente. Ci racconti qualcosa di più dell’ispirazione dietro a questa serie?

La parte più interessante del lavorare con un cliente è la possibilità di parlare e soprattutto di ascoltare, cosa fondamentale per trovare nuove angolazioni e nuovi punti di vista. Dal confronto con Foscarini è emersa fin dall’inizio l’importanza della luce in relazione agli spazi: luce non solo notturna, che è ovviamente artificiale e prodotta dalle lampade, ma anche diurna, all’interno della quale le lampade trovano una dimensione diversa in quanto oggetti di design. Ecco allora che la luce (o meglio le luci) e le lampade Foscarini diventano due elementi che, in modi diversi a seconda dell’orario, contribuiscono a definire la personalità della casa, che è a sua volta un riflesso della personalità di chi la arreda e la abita.

 

Ci sono oggetti che ti fanno sentire a casa, ovunque tu sia?

Ho viaggiato costantemente negli ultimi dieci anni e quello che ogni volta mi fa sentire un po’ più vicino a casa sono le macchina fotografiche che porto sempre con me. In un certo senso fanno da ponte tra i posti dove sono e quello in cui tornerò portando con me un pezzo di ogni viaggio.

 

Cosa ne pensi di Foscarini? Com’è stato lavorare con l’azienda su questo progetto?

Mi sono sentito in sintonia fin da subito perché la filosofia che muove l’azienda ruota intorno ai concetti di individualità e personalizzazione, che sono gli stessi sui quali si basa il mio lavoro. Ogni singolo pezzo è un progetto a se stante, non credo nelle soluzioni standard perché sono convinto della necessità di un costante sforzo di aggiornamento e ricerca sia estetica che concettuale.

 

Quali sono le tue fonti di ispirazione e come coltivi la tua creatività?

Le mie fonti di ispirazione sono molto variegate, spesso quasi casuali. Mi affido alla ricerca ma anche alla quotidianità della vita di tutti i giorni: siamo così abituati ad essere circondati da stimoli visivi che in genere non prestiamo attenzione a ciò che vediamo, mentre nella maggior parte dei casi la cosa migliore da fare per trovare l’idea giusta è alzarsi dal foglio da disegno e andare a farsi un giro senza una meta guardandosi intorno.

 

Qual è il tuo processo creativo?

Dipende molto da cosa devo fare. Spesso elaboro le idee lasciandole sedimentare in background mentre faccio tutt’altro, poi traccio delle bozze molto approssimative su carta che passo successivamente ad elaborare in digitale per poi, eventualmente, riversarle di nuovo su carta o tela. Capita sempre più spesso di lavorare per supporti esclusivamente digitali, ma produrre artwork fisici rimane sempre l’output che preferisco.

 

Qual è la tua cosa preferita da disegnare?

Senza dubbio architetture e oggetti spigolosi.

 

Qual è/sono l’illustrazione/le illustrazioni che ti piacciono di più in questa serie e perché?

In realtà mi sono divertito non tanto con una singola illustrazione quanto con il fatto di aver avuto la possibilità di creare, sfruttando i sei soggetti distribuiti su due righe, una serie simmetrica che racconta il ciclo del giorno e della notte. La narrazione è un aspetto fondamentale di qualsiasi opera visiva e l’estetica non dovrebbe mai essere fine a se stessa.

 

Cos’è per te la creatività?

Per quanto mi riguarda è senza dubbio un processo organico che è impossibile separare dalla vita di tutti i giorni.

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